L’Obolo di San Pietro. Usi e abusi

di Andrea Drigani · L’ affaire Becciu ha, inevitabilmente, richiamato l’attenzione sull’Obolo di San Pietro, in particolare, sui suoi usi e, purtroppo, anche sugli abusi. L’Obolo di San Pietro nasce con la fine dello Stato pontificio e la conseguente cessazione delle entrate fiscali che servivano anche al mantenimento dei servizi della Curia Romana, nonché per l’esercizio delle opere caritative. Il Beato Pio IX con l’Enciclica «Saepe venerabiles fratres» del 5 agosto 1871 confermava definitivamente l’istituzione dell’Obolo di San Pietro, con un’articolazione diocesana e parrocchiale al fine di raccogliere offerte ed elargizioni da consegnarsi al Romano Pontefice per l’espletamento della sua azione di Pastore della Chiesa universale. L’Obolo di San Pietro ha continuato ad esistere, anzi si è incrementato, aiutando economicamente la missione del Vescovo di Roma, in due modi: il primo col sostegno alle attività svolte dalla Curia Romana per il servizio alla Chiesa universale in ordine, tra l’altro, all’educazione cristiana, alla promozione della sviluppo umano integrale, alla comunicazione, e il secondo contribuendo alle opere caritative rivolte ai più bisognosi. L’Obolo di San Pietro, insieme alle altre offerte, rappresentano circa il 20% delle entrate annue della Santa Sede, mentre le entrate dello Stato della Città del Vaticano sono costituite principalmente dai biglietti d’ingresso ai Musei Vaticani. Ma l’Obolo di San Pietro costituisce pure la riserva patrimoniale finanziaria, affinché, con adeguati strumenti, si provveda, con una certa stabilità, a quei fini organizzativi ed assistenziali di cui abbiamo scritto. E’ opportuno ricordare i principi classici dell’amministrazione dei beni ecclesiastici, cominciando da San Paolo Apostolo che dichiara: «Ora, ciò che si richiede agli amministratori è che ognuno risulti fedele» (I Cor 4,2). La tradizione canonica, sia latina (CIC cann. 1281-1284) che orientale (CCEO can. 1028), impone agli amministratori dei beni ecclesiastici di adempiere i loro compiti in nome della Chiesa e secondo le norme del diritto canonico e civile, attendendo altresì alle loro funzioni con la diligenza di un buon padre di famiglia (Cfr. Andrea Drigani, La diligenza del buon padre di famiglia il codice vaticano degli appalti, su questa Rivista, luglio 2020). E’, poi, assai opportuno far presente che l’articolo 33 della Costituzione Apostolica «Pastor bonus» afferma che l’attività di tutti coloro che lavorano nella Curia Romana e negli altri organismi della Santa Sede è un vero servizio ecclesiale, contrassegnato da carattere pastorale, in quanto è partecipazione alla missione universale del Romano Pontefice, e tutti devono compierlo con la massima responsabilità e con la missione a servire. Disgraziatamente esistono gli abusi, cioè gli usi di una «res» in modo diverso o contrario da quello previsto dalla legge. La magistratura vaticana, com’è noto, in questi giorni sta indagando su varie ipotesi di reato come il peculato che è l’appropriazione o la distrazione a profitto proprio o altrui di denaro di altri. Nel caso dell’Obolo di San Pietro si tratta del denaro delle oblazioni spontanee dei «christifideles» e i fatti sui quali è aperta l’inchiesta possono intristire e ingenerare scandalo tra il popolo di Dio. Ma una riflessione più attenta ci fa comprendere che l’offerta per l’Obolo di San Pietro, anche se piccola, ha uno sguardo grande, perché rappresenta un segno concreto di appartenenza alla Chiesa e di comunione con il Papa come simbolo della sua unità.