«C’era una volta la politica»

332 499 Giovanni Pallanti
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di Giovanni Pallanti · Di fronte a un quadro se per curiosità uno si avvicina troppo per vedere un particolare pittorico, fa un gravissimo errore. Un dipinto, come la storia degli uomini, va visto con un distacco che consenta di apprezzarlo soprattutto da lontano. Il particolare è sempre in sé negativo. Come diceva Francesco Guicciardini, l’interesse <particulare> è nemico della buona politica, quindi lo storico, come il critico d’arte, deve fare lo sforzo di considerare gli aspetti generali di un pittore o di un politico. Questa operazione l’ha compiuta brillantemente Pier Ferdinando Casini, nel libro, recentemente pubblicato da Piemme, <C’era una volta la politica. Parla l’ultimo democristiano>. 

Casini racconta i grandi personaggi che ha conosciuto nella storia della repubblica, da Malagodi a Ciampi, da La Malfa a Craxi, ma soprattutto i protagonisti della storia politica della Dc. Amintore Fanfani, Giorgio La Pira, Arnaldo Forlani, Toni Bisaglia, Francesco Cossiga, Ciriaco De Mita ed altri ancora. 

Questo libro non è una memoria vera e propria, ma un metodo politico uguale a quello che ha caratterizzato quasi cinquant’anni di vita del maggior partito italiano, dal secondo dopoguerra fino alla metà degli anni Novanta. Letto superficialmente il lavoro di Casini può sembrare un esercizio intelligente di dire bene, senza esagerazioni, del partito in cui lui per lungo tempo ha militato. Invece no.  Racconta i personaggi dello scudocrociato con luci ed ombre, dicendo anche cose spiacevoli, con la consapevolezza, però, del ruolo da essi svolto nella storia italiana. Per questa ragione ammette che Giulio Andreotti è stato un suo avversario, a cui però riconosce una grande credibilità internazionale e un fascino magnetico a cui era difficile sottrarsi. Così come ricorda di Andreotti l’accusa della magistratura inquirente, di aver commissionato un omicidio e di essere andato a Palermo in tribunale a manifestargli la sua piena solidarietà. Così come racconta di Francesco Cossiga, genio acuto e penetrante della storia del presente dell’Italia, ma con il grave difetto di un carattere bipolare. L’autorevolezza energica di Fanfani, grande governante dell’Italia degli anni Sessanta, e il distacco signorile e intelligente di Arnaldo Forlani: un signore della politica che sembrava uscito da un collegio di Oxford, tifoso dell’Inter e molto umano nell’esercizio del potere. Ciriaco De Mita lo racconta come un grande politico diviso tra strategie che immaginava risolutive dei problemi nazionali e internazionali, e questioni di piccolo potere pratico. Aldo Moro come un insigne leader che la Dc, tra innumerevoli tormenti, consapevolmente, sacrificò agli obiettivi degli assassini delle Brigate rosse, per senso dello Stato, perché era impossibile una trattativa per salvarlo se non mettendo in conto una catastrofe democratica.

Quindi la storia narrata da Casini, non è un generico apprezzamento per una classe dirigente nata dalla Resistenza al fascismo e democraticamente anticomunista. Egli racconta bene che i capi della Dc erano in generale dei grandi studiosi, uniti da un comun denominatore, quale è la dottrina sociale della Chiesa, concorrenti tra di loro per la primazia nel partito e nel governo del Paese, ma mai nemici. 

Questa è una lezione che vale anche per i partiti di oggi, che sono, rispetto alla Dc, una misera cosa. Gli uomini raccontati da Casini hanno sfidato democraticamente i grandi totalitarismi del Novecento: fascismo e comunismo, il terrorismo nero e quello rosso, senza mai dimenticare come si combatte la violenza e il totalitarismo ideologico con la democrazia. Una grande lezione, quella democristiana, che a molti decenni di distanza dalla sua fine, si apprezza meglio e compiutamente. Questa è la vera ragione della rinascita italiana, dalle macerie lasciate dalla Seconda guerra mondiale all’ingresso fra le sette grandi nazioni del mondo. Casini scrive che dietro questa Dc c’era l’insegnamento e la guida spirituale di un santo: Giovanni Battista Montini, poi diventato Paolo VI.  

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Giovanni Pallanti

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