Evangelizzarsi per evangelizzare

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di Alessandro Clemenzia · Evangelizzare è testimoniare un incontro personale. Con queste parole si potrebbe riassumere quanto ha affermato Papa Francesco durante l’udienza generale del 22 marzo scorso: egli ha fondato la sua riflessione su alcuni aspetti essenziali dell’Esortazione apostolica Evangelii nuntiandi (1975) di Paolo VI, presentata come “magna carta” dell’evangelizzazione anche nel mondo contemporaneo. La “testimonianza” rappresenta un termine-chiave per comprendere in cosa consista l’evangelizzazione: non una mera trasmissione di dati in ordine alla dottrina e alla morale, ma la presentazione efficace dell’incontro con una presenza capace di trasformare ogni esistenza. Evangelizzazione è proprio il «trasmettere Dio che si fa vita in me». Non si tratta, dunque, di offrire alti contenuti catechetici acquisiti da qualcuno prima di noi, ma di donare l’esperienza che ciascuno ha fatto attraverso un linguaggio capace di raggiungere il cuore dell’interlocutore.

Soprattutto con il Vaticano II, a partire da un nuovo paradigma della missione che vede come protagonista l’intero Popolo di Dio, l’attenzione della riflessione ecclesiologica si è spesso concentrata sul ruolo decisivo della comunicazione della fede, sottolineando in particolare come un annuncio sia realmente efficace nel momento in cui non si limita a essere informativo (a offrire, cioè, semplici informazioni di contenuto), ma performativo, capace cioè di generare nell’interlocutore la medesima realtà annunciata. Perché ciò accada, tale comunicazione deve nascere dalle viscere del proprio personale incontro con Cristo. Da qui scaturisce una testimonianza autentica. Annunciare ciò che Dio ha compiuto: si è piegato su un’umanità ferita e ha offerto alla sua creatura uno sguardo nuovo su tutta la realtà. L’originalità della fede arriva così a toccare «le nostre relazioni, i criteri e i valori che determinano le nostre scelte».

Ciò che viene comunicato, in una testimonianza efficace, riguarda la propria esistenza quotidiana, l’essere stati raggiunti concretamente, con tutti i propri limiti, da Qualcuno che sa offrire un fascino maggiore rispetto a tante altre attrazioni, anche quando queste ultime sembrano più forti e prendono il sopravvento. Per questa ragione chi ha incontrato Cristo nella propria vita non è uno più buono degli altri, ma colui che nella propria miseria è reso consapevole che esiste qualcosa di meglio rispetto al lasciarsi determinare dai numerosi condizionamenti odierni. In questo senso Papa Francesco recupera le tre domande fondamentali formulate da Paolo VI: «Credi a quello che annunci? Vivi quello che credi? Annunci quello che vivi?».

Queste domande non sono l’architrave del moralismo, ma mostrano una grande verità: la necessità di una costante conversione, soprattutto per coloro che vivono dal di dentro l’esperienza ecclesiale, per coloro che hanno già incontrato personalmente Cristo e desiderano poi testimoniarlo agli altri: «Dobbiamo essere consapevoli che destinatari dell’evangelizzazione non sono soltanto gli altri, coloro che professano altre fedi o che non ne professano, ma anche noi stessi, credenti in Cristo e membra attive del Popolo di Dio». Si tratta di quella che Francesco denomina «l’evangelizzazione del cuore». Il Papa mostra, dunque, come la Chiesa possa vivere autenticamente il suo essere soggetto della testimonianza, nel momento in cui riconosce la necessità di convertirsi, di essere evangelizzata a sua volta; la comunità cristiana «ha bisogno di ascoltare di continuo ciò che deve credere, le ragioni della sua speranza, il comandamento nuovo dell’amore. La Chiesa, che è un Popolo di Dio immerso nel mondo, e spesso tentato dagli idoli – tanti –, ha sempre bisogno di sentir proclamare le opere di Dio».

Una Chiesa che si evangelizza per evangelizzare. Da tale desiderio di conversione può scaturire una rinnovata comunicazione della propria fede, e prende avvio la vera “riforma” della Chiesa: «Una Chiesa che si evangelizza per evangelizzare è una Chiesa che, guidata dallo Spirito Santo, è chiamata a percorrere un cammino esigente, un cammino di conversione, di rinnovamento».

È questo lo “stile” missionario proposto da Francesco, che chiede di avere uno sguardo rivolto contemporaneamente verso Dio e verso l’umanità, o – recuperando quanto è affermato in Evangelii gaudium – di essere «un contemplativo della Parola ed anche un contemplativo del popolo» (n. 154).

È dal desiderio di conversione, e dunque dal riconoscimento della propria infedeltà, che la Chiesa può aprire nuovi scenari di evangelizzazione: un popolo «che tesse relazioni fraterne, che genera spazi di incontro, mettendo in atto buone pratiche di ospitalità, di accoglienza, di riconoscimento e integrazione dell’altro e dell’alterità, e che si prende cura della casa comune che è il creato». Si tratta di un’esperienza ecclesiale che trova la sua identità in quell’atteggiamento dialogico verso il mondo contemporaneo e verso il suo Signore: una comunità di credenti che, nel riconoscere la propria inadeguatezza, «lascia entrare lo Spirito Santo che è il protagonista dell’evangelizzazione. Senza lo Spirito Santo noi potremmo soltanto fare pubblicità della Chiesa, non evangelizzare». Nel rendere lo Spirito Santo protagonista dell’evangelizzazione, la Chiesa adempie il suo compito di testimoniare al mondo intero l’incontro con Cristo.

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