Riforma come renovatio

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di Alessandro Clemenzia · La riforma della Chiesa continua ad essere uno dei temi più dibattuti in ambito ecclesiale. Come la storia stessa insegna, la comunità cristiana lungo i secoli ha conosciuto una costante processualità, mossa sia da spinte esterne, sia soprattutto dalla necessità al suo interno di conformarsi sempre di più al suo disegno sull’umanità, in relazione a Cristo e alle sempre nuove sfide del presente.

Pur riconoscendo che la Chiesa sia semper reformanda, non si può parlare di “riforma” in senso generale, senza alludere all’ambito dove si vorrebbe attuare un cambiamento, compreso, da qualcuno, come ritorno a una forma primordiale che via via è andata de-formandosi, da altri, come offerta di una forma realmente nuova rispetto a una precedente. Gli ambiti sono differenti: dalla morale alla liturgia, da materie dottrinali a quelle disciplinari, da strutture di governo ad altre di natura consultiva.

Eppure, l‘autentica renovatio di cui la Chiesa ha davvero bisogno per diventare sempre più conforme alla sua natura, è quella che riguarda soprattutto la conversione interiore di ogni suo membro. Siamo ben lontani, dunque, da una logica di adattamento ai tempi che intende rimodellare la struttura ecclesiale sulla base, molto spesso, di opinioni teologiche.

Un contributo a questo tema si può rintracciare nel discorso che Papa Francesco ha rivolto alla Curia romana in occasione degli auguri natalizi. Partendo dall’evento di un Dio che si è fatto bambino, il Papa spiega in cosa consiste la povertà a cui ogni cristiano è chiamato: «Così come Egli sceglie la povertà, che non è semplicemente assenza di beni, ma essenzialità, allo stesso modo ognuno di noi è chiamato a ritornare all’essenziale della propria vita, per buttare via tutto ciò che è superfluo e che può diventare impedimento nel cammino di santità». Questo tornare all’essenziale, togliendo tutto ciò che rischia di alterare la forma originaria, riguarda certamente la conversione di ogni cristiano, ma è un criterio valido anche per comprendere la riforma della Chiesa come vera e propria conformazione a Cristo, che scelse la povertà, non come assenza di beni, ma come assunzione dell’essenziale.

Tra gli eventi che, nell’ultimo anno, hanno aiutato la Chiesa a recuperare un’autentica coscienza di se stessa, il Papa ha menzionato la ricorrenza dei sessant’anni dall’inizio del Concilio Vaticano II: «Cos’è stato l’evento del Concilio se non una grande occasione di conversione per tutta la Chiesa? […]. La conversione che il Concilio ci ha donato è stato il tentativo di comprendere meglio il Vangelo, di renderlo attuale, vivo, operante in questo momento storico». L’aggiornamento ecclesiale, parola-chiave del Vaticano II, non consiste nell’adeguamento a qualcosa di esterno (inteso come modernizzazione), ma nel rendere sempre vivo il Vangelo. L’annuncio di quest’ultimo non può essere considerato un’attività pastorale tra le tante, ma ha a che fare con la natura stessa della Chiesa; Pietro, nel narrare a una numerosa folla la sua personale esperienza di Cristo, ha generato il desiderio di fare la sua stessa esperienza negli interlocutori; questi, trafitti nel cuore, chiesero a Pietro cosa dovessero fare per partecipare a quella realtà. «E Pietro disse loro: “convertitevi e ciascuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo, per il perdono dei peccati, e ricevete il dono dello Spirito Santo”» (At 2,38). E quel giorno si fecero battezzare circa tremila persone. L’annuncio del Vangelo, dunque, è determinante per la Chiesa: è ciò che ha generato la fede e continua a generarla lungo i secoli.

Ma anche l’annuncio richiede una conversione costante, e qui Francesco ha introdotto un altro tema di grande attualità: «Questo percorso è tutt’altro che concluso. L’attuale riflessione sulla sinodalità della Chiesa nasce proprio dalla convinzione che il percorso di comprensione del messaggio di Cristo non ha fine e ci provoca continuamente». La sinodalità secondo il Papa, prima ancora di volerla realizzare nelle strutture ecclesiali, è un richiamo a oltrepassare un certo fissismo spirituale: «È l’errore di voler cristallizzare il messaggio di Gesù in un’unica forma valida sempre. La forma invece deve poter sempre cambiare affinché la sostanza rimanga sempre la stessa. L’eresia vera non consiste solo nel predicare un altro Vangelo (cfr Gal 1,9), come ci ricorda Paolo, ma anche nello smettere di tradurlo nei linguaggi e nei modi attuali, cosa che proprio l’Apostolo delle genti ha fatto. Conservare significa mantenere vivo e non imprigionare il messaggio di Cristo». Ciò riguarda anche la “riforma”, come dinamica in cui la forma deve essere sempre capace, nella variabilità delle circostanze storiche, di esprimere la medesima sostanza; e qui entra in gioco l’importanza del linguaggio che deve saper tradurre in modo nuovo e attuale una realtà annunciata, che però non può variare secondo l’opinione del momento.

Ultimo aspetto sottolineato dal Papa è il tema della pace. La renovatio interiore, prima ancora di spingere i credenti a “fare” qualcosa, introduce un nuovo sguardo sulla realtà, capace di offrire un nuovo senso al già esistente: «Dove regnano morte, divisione, conflitto, dolore innocente, lì noi possiamo solo riconoscere Gesù crocifisso».

La vera riforma della Chiesa, dunque, è una renovatio che crea nei credenti occhi nuovi per saper cogliere la presenza di Dio anche lì dove sembra apparentemente assente.

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