All’origine del Concilio Vaticano II

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di leonardo Salutati · Fin dall’inizio il tema principale del Concilio per Giovanni XXIII doveva essere quello dell’«aggiornamento»; di questo aveva parlato, sebbene in modo ancora generico, nell’allocuzione ai cardinali del 25 gennaio 1959 nella basilica di San Paolo fuori le mura. Con questa parola egli indicava la necessità che la Chiesa annunciasse il Vangelo all’uomo contemporaneo in modo adeguato alle specifiche esigenze dei tempi. Per questo chiedeva alla comunità dei credenti di lasciarsi alle spalle la lunga stagione di lotte e di contrapposizioni, che spesso aveva visto su versanti opposti la Chiesa e il mondo moderno, e di superare la mentalità intransigente che aveva caratterizzato buona parte del magistero ecclesiastico e una certa pratica pastorale, per ricercare una rinnovata inculturazione del messaggio cristiano nella vita e nel pensiero contemporaneo.

Altro concetto chiave presente fin dall’inizio nella mente del Papa fu la «pastoralità» del Concilio, principio da lui affermato in diverse occasioni e spesso frainteso. Secondo alcuni studiosi, con tale accentuazione il Papa intendeva superare il binomio tridentino dottrina-disciplina (fides et mores) come fondamento del lavoro e delle decisioni conciliari. Ciò di fatto significava rinunciare alla definizione di nuovi dogmi o alla formulazione di nuove condanne per adottare uno stile fraterno, ispirato all’accoglienza e al rispetto dell’altro, aperto al dialogo e alla condivisione, con un orientamento non conflittuale verso il mondo dell’opera del Concilio.

Pastoralità e aggiornamento, così intesi, hanno posto le premesse per evitare che la teologia fosse intesa come concettualizzazione astratta e come isolamento della dimensione dottrinale della fede rispetto alla vita concreta, ma anche per il superamento del «giuridismo», ovvero di quell’atteggiamento che ha esagerato la funzione del diritto nella vita della Chiesa, dando l’impressione di una Chiesa piuttosto autoritaria che autorevole e attenta alla dimensione relazionale e comunionale dei suoi membri.

A questi due elementi si deve aggiungere la costante «preoccupazione per i poveri» di Giovanni XXIII, già manifestata esplicitamente e formalmente in Mater et magistra del 1961, che accompagnerà il Papa fino alla fine. Infatti, nell’indire il Concilio Vaticano II, preoccupato che tale finalità venisse oscurata dalla settantina di schemi preparatori, Giovanni XXIII la volle direttamente proporre al mondo nel radiomessaggio dell’11 settembre 1962, ad un mese dall’apertura del Concilio, ricordando che la Chiesa doveva presentarsi come la Chiesa di tutti, «ma anzitutto come la Chiesa dei poveri».

Ulteriore elemento presente nella mente di Giovanni XXIII fin dall’origine che, anzi, fu avvertito nella percezione comune come la ragione immediata della convocazione di un nuovo Concilio, era la «chiamata all’unità di tutta la Chiesa» di cui è stato un deciso sostenitore. Ciò che il Papa intendeva sollecitare era la disponibilità dei cattolici a farsi coinvolgere in un cammino verso l’unità delle Chiese cristiane. Per questo desiderò che al Concilio partecipassero, nella veste di osservatori attivi e non passivi, anche i rappresentanti delle Chiese di Oriente e di Occidente e istituì il Segretariato per l’Unità dei Cristiani.

Tutti questi elementi che riguardano in generale il Concilio, li troviamo sviluppati in particolare in Gaudium et spes nel suo compito di trattare della Chiesa in rapporto al mondo. Ciò che costituisce l’elemento unificante di tutta la riflessione offerta in Gaudium et spes è chiaramente espresso al centro fisico del testo quando si afferma che «Il Signore è il fine della storia umana» (n. 45). Tale affermazione ci ricorda come esista un progetto di Dio non soltanto sul singolo uomo ma anche su tutta la storia dell’umanità che ha nel Signore Gesù il suo traguardo, di fatto invitando a superare quella visione della fede che la considera prevalentemente nella sua dimensione privata e affermando l’importanza di una visione globale dell’umanità, dove il compito della Chiesa non è la sola salvezza delle singole anime ma anche essere compagna di strada degli uomini (cf. n. 40).

La modalità per conseguire il traguardo indicato consiste nell’adottare, da parte degli esseri umani, le caratteristiche della vita divina consistenti nel «dono di sé», chiaramente espressa quando Gaudium et spes ricorda che: «l’uomo il quale in terra è la sola creatura che Dio abbia voluto per se stessa, non può ritrovarsi pienamente se non attraverso un dono sincero di sé (nr. 24)

Tocchiamo qui un punto fondamentale della riflessione, che costituisce uno dei grandi contributi del documento conciliare, che sottolinea che ogni singolo essere umano ha una dimensione costitutivamente sociale / relazionale che, se acquisterà pienezza soltanto in Dio (cf. nn. 24, 41), tuttavia richiede modalità concrete per esprimersi secondo le caratteristiche della socialità dell’uomo la quale: «(…) si realizza in diversi gruppi intermedi, cominciando dalla famiglia fino ai gruppi economici, sociali, politici e culturali che, provenienti dalla stessa natura umana, hanno – sempre dentro il bene comune – la loro propria autonomia» (CA 13).

Proprio nella logica del dono di sé è pensabile la realizzazione della preghiera di Gesù quando chiede al Padre che gli uomini «siano una sola cosa come noi siamo una sola cosa… perfetti nell’unità» (Gv 17,22-23). Questo è il progetto di Dio per l’umanità ed è quanto Gaudium et spes declina e ci insegna nella sua esposizione.

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Leonardo Salutati

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