La denatalità e il «salario familiare»

318 159 Leonardo Salutati
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Il cronico problema della denatalità in Italia è oggetto recentemente di numerosi studi che individuano molteplici fattori all’origine di un livello di fecondità tra i più bassi d’Europa. La formazione di una famiglia, tuttavia, è favorita da circostanze di pianificazione e stabilità economica e sociale, per questo l’instabilità occupazionale (Brilli – Fanfani – Piazzalunga, 2024), riveste un ruolo rilevante nell’ostacolare le decisioni sulla fecondità, in una situazione decisamente drammatica.

Recentemente due ricercatrici, utilizzando i dati sulla “Rilevazione forze lavoro italiane” forniti da Eurostat per il periodo dal 2000 al 2020, hanno esaminato la correlazione tra instabilità lavorativa e probabilità di avere un primo o un ulteriore figlio in Italia (Scherer – Brini, 2024) e hanno rilevato che l’instabilità occupazionale individuale, come il lavoro temporaneo o la disoccupazione, influenza negativamente la probabilità di avere un figlio sia per gli uomini che per le donne, indipendentemente dalle caratteristiche demografiche e socio-economiche. In particolare, sia la disoccupazione che i contratti a tempo determinato sono associati a probabilità nettamente inferiori di vedere una nascita, rispetto a chi ha un contratto a tempo indeterminato. L’instabilità è rilevante soprattutto per la prima nascita e in misura minore per le seconde, mentre la progressione verso ulteriori nascite è meno sensibile alla situazione lavorativa.

La fecondità è di solito una decisione di coppia ed è influenzata dalla situazione lavorativa di entrambi gli individui coinvolti, tuttavia dall’analisi emergono due aspetti significativi.

1) In un contesto di coppia la situazione lavorativa delle donne ha molta più influenza per la nascita di un figlio rispetto a quella degli uomini, constatazione che porta a dedurre che la situazione lavorativa della donna non può essere considerata semplicemente come una fonte di guadagno utile a integrare il budget familiare in cui la situazione lavorativa ed economica del partner maschile, come capofamiglia, è la risorsa economica principale.

2) L’inattività delle donne risulta confermarsi un importante fattore predittivo della maternità; dato che contraddice l’idea che l’occupazione femminile sia oggi un prerequisito per la genitorialità.

Alla luce di queste considerazioni si restano quanto mai appropriati i richiami e le indicazioni del Magistero sociale della Chiesa riguardo al giusto salario che sono estensibili anche alla situazione di instabilità lavorativa perché, alla fine, sempre di insufficienza reddituale si tratta.

Fin da Rerum novarum, dunque, viene contestata la corresponsione di un salario al lavoratore non corrispondente a criteri di giustizia e si denuncia la realtà di un conflitto tra capitale e lavoro in cui «i lavoratori mettevano le loro forze a disposizione del gruppo degli imprenditori che, guidato dal principio del massimo profitto della produzione, cercava di stabilire il salario più basso possibile per il lavoro eseguito dagli operai» (Laborem exercens 11), generando condizioni sociali svantaggiose per tutti. Per questo, si richiama al rispetto dei criteri di giustizia e alla corresponsione di un salario familiare (Quadragesimo anno 72; Laborem exercens 19) che, oltre a garantire l’equa retribuzione della ricchezza prodotta, promuova il bene comune della società che oggi, tra le altre cose, è seriamente minacciato dall’invecchiamento della popolazione.

Pertanto, non è ritenuta equa la determinazione del salario quando si ricorra «a un’unica misura ben lontana dalla realtà» (Quadragesimo anno 68; «l’unica misura» allude alla legge della domanda e dell’offerta), «sfruttando gli operai, come semplici macchine, senza curarsi delle loro anime» in modo che se «la materia inerte, esce nobilitata dalla fabbrica, le persone invece si corrompono e si avviliscono» (Idem 134). Infatti, non si può valutare giustamente «l’umana attività dove non si tenga conto della sua natura sociale e individuale» ovvero delle ricadute a favore del corpo sociale dove ogni componente dipende l’uno dall’altro venendo «quasi a formare una cosa sola» (Idem 70).

Secondariamente, tenuta in debita considerazione la condizione economica dell’azienda (Idem 73-74), «da questo doppio carattere, insito nella natura stessa del lavoro umano» deriva in primo luogo che al dipendente «si deve dare una mercede che basti al sostentamento di lui e della sua famiglia» (Idem 71-72). Infatti, pur essendo giusto che ogni componente della famiglia «ciascuno secondo le sue forze, contribuisca al comune sostentamento … è un pessimo disordine che le madri di famiglia, per la scarsezza del salario del padre, siano costrette ad esercitare un’arte lucrativa (…) trascurando così la cura e l’educazione dei loro bambini» (Idem 72). Infatti, «l’abbandono forzato di tali impegni, per un guadagno retribuitivo fuori della casa, è scorretto dal punto di vista del bene della società e della famiglia, quando contraddica o renda difficili tali scopi primari della missione genitoriale» (Laborem exercens 19).

Infine non va scordato che «la quantità del salario deve contemperarsi col pubblico bene economico», sia nel senso di consentire al dipendente di accantonare parte del salario «per giungere a poco a poco a un modesto patrimonio», sia nel senso che «a coloro i quali possono e vogliono lavorare, si dia opportunità di lavorare», perché «è contrario alla giustizia sociale che, per badare al proprio vantaggio senza aver riguardo al bene comune, il salario degli operai venga troppo abbassato o troppo innalzato» (Quadragesimo anno 75), senza considerare, poi, la correlazione esistente tra livello salariale e formazione dei prezzi «a cui si vendono i prodotti delle diverse arti quali l’agricoltura, l’industria e simili» (Idem 76).

Indicazioni sulle quali meritava, e merita, riflettere per un autentico rilancio demografico.

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Leonardo Salutati

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