La nuova banalità di un male antico. Il contrasto all’immigrazione e l’anestetizzazione della coscienza

728 500 Gianni Cioli
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di Gianni Cioli • L’espressione “banalità del male” è stata coniata dalla filosofa Hannah Arendt nel suo libro del 1963, “Eichmann in Jerusalem: A Report on the Banality of Evil”. La Arendt seguì il processo di Adolf Eichmann, un ufficiale nazista responsabile della logistica delle deportazioni degli ebrei durante l’Olocausto. Si aspettava un mostro e si trovò davanti un uomo ordinario, un burocrate che eseguiva ordini senza riflettere sulle conseguenze né concrete né morali delle sue azioni. L’autrice concluse che il male può essere commesso da persone comuni che non sono necessariamente malvagie di per sé, ma che agiscono senza pensiero critico e consapevolezza morale, parte di un abnorme ingranaggio burocratico che sembra costruito apposta per sgravare da ogni responsabilità che non sia quella dell’eseguire gli ordini.

Nel tempo, l’espressione “banalità del male” è stata adottata nel giornalismo e nel linguaggio comune per descrivere situazioni in cui il male viene compiuto da individui ordinari che eseguono ciecamente ordini o norme sociali senza riflettere sulle implicazioni etiche delle loro azioni. Il concetto viene quindi talora evocato per sottolineare l’importanza della responsabilità individuale e del pensiero critico al fine di prevenire nuove atrocità.

Mi pare significativo che Francesco Pungitore, in un articolo apparso sulla rivista on line, Essere e pensiero, intitolato La banalità del male: riflessioni sulla responsabilità individuale e attualità dell’opera di Hannah Arendt, evidenzi come il concetto di banalità del male debba interrogarci sulla nostra capacità di pensiero critico, empatia e responsabilità etica in un mondo sempre più interconnesso e complesso che sembra costruito apposta per allontanarci da ogni contatto concreto con la realtà. L’autore ritiene che fra i diversi esempi attuali di “come la burocrazia e l’obbedienza cieca possano condurre a conseguenze disastrose”, si debbano annoverare anche “le politiche di immigrazione restrittive”, la cui gestione burocratica porta spesso “a violazioni dei diritti umani e a situazioni disumane per i rifugiati e i migranti. La rigidità delle leggi e dei protocolli, insieme all’obbedienza cieca alle regole, può – sottolinea Pungitore – condurre a situazioni in cui gli individui coinvolti nelle procedure amministrative ignorano l’impatto umano delle loro azioni”.

La spettacolarizzazione della campagna dei deportation proceedings, messa tempestivamente in atto dalla nuova amministrazione USA, forte di un netto consenso elettorale, nei confronti degli emigrati clandestini e l’intento di indurre altri paesi del mondo occidentale ad adottare linee di gestione analoghe dei fenomeni migratori manifestato dal più eminente “satellite” del Presidente, mi spinge a dire che oggi, nelle politiche di contrasto ai flussi dell’immigrazione dai paesi più poveri a quelli più ricchi, siamo di fronte a una nuova banalità del male. Nuova nell’arroganza e nella sconcertante platealità, ma anche nell’impressionante capacità di raccogliere consensi attraverso le nuove forme di comunicazione e persuasione, sebbene quello della xenofobia sia un male antico, radicato, direi, nel cuore umano.

La storia umana è sempre stata un percorso drammatico di commistione di male e di bene, di crudeltà e di compassione. Ma vi sono congiunture in cui – mi si perdoni la citazione incauta – “emergono i peggiori tra gli uomini” (Sal 11) e i pusillanimi e i gregari vanno loro dietro. La naturale propensione umana a essere gregge, nel senso meno nobile del termine, può così commutarsi nella disposizione a diventare branco, nel senso più crudele della metafora.

Pingitore, nel suo articolo scritto prima dell’insediamento del nuovo presidente degli USA, per esemplificare l’attualità del concetto di banalità del male nelle politiche restrittive verso i migranti, non chiama in causa le politiche anti-migratorie americane ma gli accordi stipulati dai governi europei con Libia e Turchia.

“Nei centri di detenzione in Libia, ad esempio, i migranti – ricorda Pingitore – sono spesso sottoposti a condizioni terribili, tra cui sovraffollamento, mancanza d’igiene, maltrattamenti e violenze. Queste situazioni inumane sono in parte il risultato di accordi tra i governi europei e le autorità libiche per controllare il flusso migratorio verso l’Europa, senza tener conto delle conseguenze umanitarie. Anche in Turchia, dove milioni di rifugiati siriani hanno cercato riparo, sono emerse preoccupazioni riguardo alle condizioni di vita nei campi profughi” (vedi).

La questione delle situazioni inumane nei centri di detenzione in Libia ci riguarda in modo diretto come italiani perché, otto anni fa, il 2 febbraio 2017 il governo italiano di centro sinistra, presieduto da Paolo Gentiloni siglò un Memorandum d’intesa con la Libia, per il quale l’Italia, in nome del controllo delle migrazioni, ha poi di fatto appoggiato, voltandosi per così dire dall’altra parte, la violenza sistematica contro migliaia di esseri umani. Il Memorandum è stato rinnovato nel 2019, durante il secondo governo Conte, di centro sinistra, e nel 2022, durante il governo Meloni, di centro destra.

Ci si è forse illusi che rinnovare il Memorandum potesse consentire all’Italia di svolgere una qualche funzione di controllo per eliminare, o almeno arginare, gli abusi, ma non pare proprio che le cose siano andate così. Anche queste eterogenesi dei fini contribuiscono, in qualche misura, alla banalità del male. Essa non dipende soltanto dalle decisioni dei politici e dei burocrati che stipulano e mantengono accordi come quello dell’Italia con la Libia senza spendersi fino in fondo perché le clausole a salvaguardia dei diritti umani, presenti sulla carta, vengano rispettate.

La banalità del male di cui stiamo parlando dipende soprattutto dall’anestetizzazione dell’opinione pubblica o, se vogliamo, della coscienza collettiva, persuasa di fatto che, nel contrasto all’immigrazione clandestina, il fine possa giustificare i mezzi, sulla base di una narrazione, ispirata a uno pseudo proporzionalismo etico. Secondo tale narrazione le atrocità connesse alle detenzioni in Libia costituirebbero un male minore che può fungere da deterrente al maggior male delle partenze clandestine via mare, le quali avrebbero come “logica” conseguenza il numero sempre crescente delle morti per naufragio degli immigrati irregolari.

Il recente caso di Osama Elmasry Njeem, militare libico accusato di crimini di guerra e contro l’umanità, arrestato in Italia su mandato della Corte penale internazionale ma successivamente liberato e rimpatriato in Libia con un volo di stato, ha fatto molto discutere. Sono tuttavia persuaso che il vero scandaloso problema, morale prima che giuridico, non sia da ravvisare nella liberazione, per altro quanto meno sconcertante, di un presunto criminale libico da parte dell’attuale governo italiano, bensì “nella silenziosa continuità di una cooperazione con le autorità libiche che rappresenta da anni l’incrollabile costante della nostra politica estera in tema di gestione dei flussi migratori” (L. Masera, «Il D.L. Piantedosi sulle operazioni di soccorso in mare: l’ennesimo tentativo di impedire ciò che il diritto internazionale impone e il problema della depenalizzazione come fuga dalla giurisdizione», in Sistema penale 4 [2023)]2, pp. 105-106).

Il clamore suscitato dal caso Elmasry poteva essere l’occasione per una presa di coscienza critica, orientata verso l’attuazione di una politica in grado di affrontare in maniera moralmente accettabile il problema dei flussi migratori. Ma la crescente tendenza all’anestetizzatone delle coscienze riguardo ai mezzi rispetto al fine, già forte in Europa, confermata dall’abitudine all’impunibilità dei criminali di guerra, in nome delle ragioni di stato, e rafforzata dai nuovi modelli d’oltre oceano, che ostentano come ragione di vanto ciò che dovrebbe essere motivo di vergogna, fanno apparire improbabile un cambiamento nel senso auspicato.

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