La crisi e il dialogo ecumenico

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di Alessandro Clemenzia · La realtà in cui si vive non può essere considerata qualcosa di secondario per arrivare a una comprensione vera di se stessi e dell’altro: essa, infatti, è molto di più di un semplice argomento di attualità, in quanto può addirittura rappresentare un “punto di non ritorno” per i diversi ambiti della vita umana. Una crisi di grande portata, quale ad esempio quella generata dalla pandemia, non può essere colta come una semplice parentesi all’interno della storia personale e comunitaria, dopo la quale si può ripartire come se nulla, nel frattempo, fosse accaduto. Questo discorso vale anche per istituzioni millenarie come la Chiesa: sarebbe del tutto inopportuno, dopo questa tragedia di ordine planetario, riavviare le attività da dove ci si era interrotti: ciò riguarda sia quelle della vita pastorale, sia il dialogo ecumenico. Ma cosa c’entra la crisi con il dialogo ecumenico?

A distanza di pochi giorni, papa Francesco ha pronunciato due discorsi, che possono essere letti nella loro complementarietà: uno ai rappresentanti della Federazione Luterana Mondiale (25 giugno 2021), l’altro alla delegazione del Patriarcato Ecumenico di Costantinopoli (28 giugno 2021).

Senza seguire l’ordine cronologico, possiamo partire proprio da quest’ultimo discorso, con cui il Papa ha accolto la delegazione ortodossa, in occasione della Solennità dei Santi Apostoli Pietro e Paolo. Tale solennità, spiega Francesco, cade proprio in un tempo particolare, mentre «il mondo sta ancora lottando per uscire dalla drammatica crisi causata dalla pandemia». Tale condizione precaria sembra essere, inizialmente, soltanto lo sfondo all’interno del quale ricorre il festeggiamento; eppure aggiunge il Papa: «Più grave di questa crisi c’è solo la possibilità di sprecarla, senza apprendere la lezione che ci consegna». Egli fa riferimento a quell’atteggiamento di umiltà di chi sa bene che non si può vivere da sani in un mondo lacerato dalla malattia. Questa drammatica vicenda del Covid ha qualcosa da insegnare in particolare ai cristiani: «Anche noi siamo seriamente chiamati a chiederci se vogliamo riprendere a fare tutto come prima, come se non fosse successo nulla, o se vogliamo cogliere la sfida di questa crisi». Quest’ultima, egli spiega, «implica un giudizio, una separazione tra ciò che fa bene e ciò che fa male». Il Papa richiama qui l’importanza di comprendere, nella variabilità delle circostanze storiche, ciò che passa da ciò che, invece, rimane per sempre ed è capace di fare del bene. Sappiamo dalla Scrittura che tutto passa, ma non il vero amore: non si tratta di quel sentimento romantico – sottolinea Francesco – che è centrato su se stesso, ma di quell’amore, rivelato da Cristo, «del seme che dà vita morendo in terra, che porta frutto spezzandosi».

Ciò ha delle implicazioni dirette per il dialogo tra cattolici e ortodossi: «Prendere sul serio la crisi che stiamo attraversando significa dunque, per noi cristiani in cammino verso la piena comunione, chiederci come vogliamo procedere». E qui il Papa mostra due possibili vie che si aprono e che possono essere percorse: il ripiegamento su se stessi o l’apertura all’altro. Quest’ultima via significa abbandonare le vecchie incomprensioni e i soliti pregiudizi, che col tempo si sono rivelati dannosi, per instaurare nuove e vere forme di relazione. Ciò non significa obliare o addirittura cancellare le differenze esistenti tra le Chiese, ma sentirsi tutti pienamente corresponsabili gli uni degli altri, nella consapevolezza che è lo Spirito Santo ad armonizzare le diversità. L’apertura all’altro, dunque, deve aprirsi alla docilità nei confronti di Colui che è capace di generare una comunione e di irradiarla universalmente, portando così a una fraternità rinnovata.

Anche nel discorso tenuto dal Santo Padre ai rappresentanti della Federazione Luterana Mondiale torna l’importanza del significato della crisi. Quest’ultima non fa più riferimento al dilagare della pandemia e ai problemi da essa causati a livello planetario, ma allude alla strada da percorrere per passare dal conflitto alla comunione: «Questo cammino si fa soltanto in crisi: la crisi che ci aiuta a maturare quello che stiamo cercando». La crisi è colta come il “metodo” per arrivare alla comunione: «Dal conflitto che abbiamo vissuto durante secoli e secoli, alla comunione che vogliamo, e per fare questo ci mettiamo in crisi. Una crisi che è una benedizione del Signore».

 

Se, dunque, nella prima accezione la crisi (quella pandemica) rappresentava una chiave interpretativa per ripartire, come Chiese, con maggiore corresponsabilità, in questa seconda accezione, di natura antropologica, la crisi diventa il metodo, la strada da percorrere, capace di portare a «guardare con umiltà spirituale e teologica alle circostanze che portarono alle divisioni, nella fiducia che, se è impossibile annullare le tristi vicende del passato, è possibile rileggerle all’interno di una storia riconciliata». La crisi, in questo senso, offre all’uomo la possibilità di cogliere la realtà in modo nuovo, di saperla leggere in modo profetico, senza cancellare la storia.

L’ecumenismo non rappresenta «un esercizio di diplomazia ecclesiale, ma un cammino di grazia. Esso non poggia su mediazioni e accordi umani, ma sulla grazia di Dio, che purifica la memoria e il cuore, vince le rigidità e orienta verso una comunione rinnovata: non verso accordi al ribasso o sincretismi concilianti, ma verso un’unità riconciliata nelle differenze».

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