Le Facoltà Teologiche come comunità ospitali

640 406 Alessandro Clemenzia
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di Alessandro Clemenzia · Questo articolo è la rielaborazione di un intervento di saluto, rivolto in occasione del Convegno intitolato Per una comunità ospitale. L’arte come “luogo” di accoglienza nel tempo della ricostruzione, organizzato dalla Conferenza Episcopale Toscana (20 novembre 2021) presso la Facoltà Teologica dell’Italia Centrale.

Si tratta di un saluto che ha voluto sintonizzarsi con la realtà, oggetto d’indagine del Convegno. Infatti, il significato dell’accoglienza, che la Facoltà Teologica di Firenze ha riservato a questo evento, non può non fare i conti con quel “luogo di ospitalità” dove ciascuno può essere se stesso, ri-conoscersi, e da cui scaturisce una nuova forma di appartenenza, di condivisione e di dialogo.

Il teologo Christoph Theobald, il primo ad essere intervenuto su tale argomento (il 23 novembre 2019) all’interno di questo percorso culturale organizzato dalla Conferenza Episcopale Toscana, ha illustrato nel suo magistrale intervento il tema dell’ospitalità o, meglio, il paradosso dell’ospitalità tra simmetria e asimmetria, tra rischio e fiducia, tra reciprocità e gratuità.

L’ospitalità è una dinamica antropologica, un movimento, che consiste nell’offrire all’altro la possibilità di abitare il proprio “luogo” interiore, lasciando che in esso egli possa liberamente esprimere se stesso. È l’affermazione del cuore capace di riconoscere: io sono perché tu sia, e tu sia veramente te stesso. Farsi abitare dal tu, senza riduzionismi, è la vera ospitalità. Ciò porta a una conseguenza senza precedenti: l’io, nel vedersi abitato dal tu, si scopre realmente “altro” da come era prima. L’ospitalità, infatti, quando è autentica, porta il singolo a una nuova identità. Da una tale esperienza di “io abitato dal tu” (un io, dunque, dilatato) può nascere il desiderio di una corrispondenza per portare la relazione a una sua pienezza: il desiderio che anche il tu sia (o diventi) capace di ospitarmi in sé. Se dunque è vero che io sono perché tu sia, è altrettanto vero che io sono perché tu sei. L’io, infatti, riconosce se stesso nel riceversi dal tu. Questa modalità relazionale, nella sua orizzontalità più estrema, è proprio il luogo in cui Dio, dando se stesso, si dice, si rivela alle sue creature: e questo è il mistero più profondo dell’esperienza cristiana, che trova nell’evento dell’incarnazione del Verbo di Dio il suo culmine rivelativo: l’umano è il luogo in cui Dio dice se stesso; anzi, facendo nostre le parole del teologo Karl Rahner, possiamo anche affermare che l’umano è la grammatica usata da Dio per dire se stesso.

E proprio in questa dinamica, all’insegna dell’ospitalità reciproca, fluisce la vita stessa di Dio: ma ciò che si rende visibile del divino è solo l’umano. Ricordo le parole del prof. Piero Coda, quando, durante una lezione di cristologia, disse a proposito di Gesù di Nazareth: era così veramente uomo, così pienamente uomo che non poteva non essere Dio.

Al di là, però, di questa dinamica interpersonale (che abbiamo descritto come relazione tra l’io e il tu), ciò su cui in questo Convegno si intende lavorare è la ricerca di un “luogo” capace di accoglienza, dove chiunque (ciascuno con le proprie peculiarità) possa esprimere se stesso e sentirsi espresso; e questo ci fa compiere un passo in avanti sul tema dell’ospitalità, in quanto mostra come quest’ultima non si misura unicamente all’interno di un rapporto interpersonale duale (io e tu), ma anche dentro un “luogo” non deterministico, contemporaneamente comune e proprio: il noi. Il noi dove l’io, il tu, l’altro e gli altri possano ciascuno dirsi nella libertà e ritrovarsi espressi nella verità. In questo contesto scopriremo cosa ha da dirci l’arte: se è vero – come è scritto nella traccia del Convegno – che la liturgia, l’annuncio, la catechesi, la scuola, il mondo della sofferenza, la sfida ecologica, le sfide delle culture urbane sono una declinazione dell’ospitalità oppure se questi sono piuttosto una concreta possibilità del darsi dell’ospitalità, e non nonostante ma proprio dentro questo tempo di distanziamento.

L’augurio è che la Facoltà Teologica dell’Italia Centrale possa farsi luogo di questo luogo (di questo noi di cui si è parlato), perché non rimanga un astratto spazio all’interno del quale si svolge un evento che, con il tempo, diventerà sempre più passato, ma luogo esperienziale di un’ospitalità vera, per generare nei docenti e negli studenti che ogni giorno lo abitano, la consapevolezza di riconoscersi interiormente dilatati e, in relazione agli altri, di essere generati alterità ospitali.

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