Il celibato dei preti. Ancora vale Paolo VI?

316 475 Francesco Vermigli
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17566477di Francesco Vermigli · Un antico adagio ricorda che si deve primum vivere deinde philosophari. In tempo di pandemia ed emergenza sanitaria ci sovviene questo detto, ora che delle diatribe sul celibato dei preti che hanno scosso gli scorsi mesi, non resta che un pallido ricordo; come un fantasma lontano, che non ha più spazio nelle menti preoccupate da ben altre cose. Tuttavia, una certa distanza da quelle polemiche ci permette di vedere la questione sine ira ac studio. Vogliamo per questo tornare ad un momento capitale della storia recente della teologia sul celibato presbiterale: Paolo VI e la sua enciclica Sacerdotalis caelibatus, del 24 giugno 1967.

Sarà démodé tornare a papa Montini che discetta di celibato e di preti? Saprà forse di sacrestie vecchie e stantie? E queste righe si coloreranno di un tono grigiastro e uggioso se torniamo alla Sacerdotalis caelibatus? Confidiamo che non accada, non per merito di chi scrive, ma per la forza delle suggestioni che da quella enciclica promanano.

La nostra attenzione va alla prima parte del documento, che ricorda le obiezioni al celibato presbiterale serpeggianti all’epoca ed elabora le argomentazioni in suo favore. Perché un primo elemento deve considerarsi, che forse non è neppure necessario ricordare; o forse sì, perché forse lo si dà per scontato: se si ricordano le obiezioni al celibato e se si imbastiscono argomenti in favore di quest’ultimo, è perché per papa Montini la scelta celibataria non è indifferente. Banalmente detto: se si difende un’opzione, è perché quell’opzione la si ritiene preferibile. Per questo andiamo alla prima parte del documento che tratta de’ «Le ragioni del sacro celibato» e de’ «Il celibato e i valori umani».

In effetti, a ben vedere, sono due i piani che vengono considerati nella risposta alle obiezioni, che – sia detto solo per transennam – non si distanziano di molto dalle obiezioni che ancora oggi vengono poste alla scelta celibataria della Chiesa cattolica. I piani considerati sono quello della convenienza teologica e quello della elevazione dei valori umani. La convenienza teologica del celibato è articolata ai vari livelli: quello cristologico innanzitutto, quindi quello ecclesiologico, infine il livello escatologico. Il celibato, agli occhi del papa, si pone come segno di radicalità che rimanda alla radicalità di vita di Cristo stesso. Il prete celibe diventa segno di Cristo che dona in pienezza se stesso, segno di un amore senza riserve. Ma ben presto, nelle parole di Paolo VI, questo segno cristologico di pienezza e di radicalità acquista un significato ecclesiale (nell’ambito della carità pastorale) e un significato escatologico (come segno che indica la meta al popolo di Dio).Paolo_VI_001

Ma Paolo VI compie un altro passo, un passo che dal piano direttamente teologico va al piano che intende il celibato come valorizzazione ed elevazione dei valori umani (si veda il titoletto che apre alla sezione dei nn. 55-57 del documento: «Il celibato come elevazione dell’uomo»). In verità l’aspetto teologico resta, sebbene sullo sfondo; dal momento che non si parla tanto di utilità pratica, ma di estensione delle qualità umane, di loro amplificazione, di loro ingrandimento, mediante la grazia che è connessa con il sacramento dell’ordine. Il che appare davvero significativo, se si pensa che normalmente una delle accuse che si fa al celibato, è piuttosto di essere una riduzione e di una mortificazione dell’umano.

Che cosa resta oggi di queste considerazioni di Paolo VI? Serve ancora a qualcosa chiamarle in causa nel momento in cui si torna a parlare di celibato dei preti? La questione in oggetto è stata affrontata dalla Chiesa recente entro un doppio limite: da un lato mantenere fermo che la questione non impatta su un livello dogmatico (pena la dissoluzione della legittimità del clero uxorato); dall’altro ribadire il carattere preferenziale della scelta celibataria. Come si vede, dunque, non siamo andati molto oltre la posizione di Paolo VI. Se non si procede avanti in una discussione, questo accade – per quanto ci sembra – per un paio di ragioni: o perché siamo stati incapaci di andare avanti, o perché lo spazio per andare oltre non è effettivamente molto. Ci pare che la seconda ipotesi sia quella giusta.

In fondo, pena il cadere in aporie evidenti e in forzature illegittime, non si potrà che pensare il celibato dei preti ancora entro quei due limiti in cui si muoveva la riflessione di papa Montini. E non è per salvare capra e cavoli che diciamo che nella storia della Chiesa sono tanti i casi in cui al popolo di Dio e ai teologi è stato chiesto di tenere assieme due o più aspetti in una dottrina, per comprenderla meglio e meglio viverla. Si tratta dell’et et cattolico, come si sa: e non si vede perché quello che vale per la teologia in genere, non dovrebbe valere per la questione annosa del celibato dei preti. Spetterà dunque proprio alla teologia tenere assieme e comporre gli elementi in gioco; spetterà alla teologia cercare nuovi orizzonti di comprensione della prassi celibataria cattolica.

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Francesco Vermigli

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