Filosofia va cercando… La teologia nella crisi della ragione

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di Francesco Vermigli • Sono passati oltre quindici anni dalla promulgazione della Fides et ratio e vien da chiedersi se sia realmente cambiato qualcosa rispetto al quadro tratteggiato da Giovanni Paolo II nell’enciclica stessa. Infatti, non è un anniversario che ci rimanda a quel testo (come potrebbero esserlo quindici anni e sei mesi circa dalla pubblicazione?), né la prossima canonizzazione del papa polacco (che potrebbe essere ricordato per tanti altri atti magisteriali): si tratta, piuttosto, di una sollecitazione che nasce dall’analisi dello stato attuale della filosofia e dalle conseguenze che questa situazione può recare alla teologia. Come nell’adagio “dietro un grande uomo, c’è sempre una grande donna” (un poco da verificare caso per caso, in verità…), si direbbe che anche alla base di una teologia che abbia la pretesa di dire qualcosa di significativo alla Chiesa e al singolo credente, c’è sempre uno sguardo sintetico sul reale e sulla sua conoscibilità; in breve, c’è sempre il recupero di una riflessione filosofica non superficiale. Di conseguenza, dove zoppica questa prospettiva complessiva sul mondo e sull’uomo, dove – in particolare – all’intelletto viene preclusa la possibilità stessa di dire qualcosa di credibile sul reale, zoppica la fede e zoppica la capacità di riflettere sulla fede e di esporla. Si direbbe che teologia e filosofia simul stabunt, simul cadent… Non si tratta – si badi – di una specifica filosofia, ma della generica riflessione razionale, che non escluda la possibilità di trovare nessi e significati nella realtà e non si opponga a ricevere un’illuminazione, a propria volta, dal pensiero credente. Ne era consapevole il papa laddove notava: «sia la ragione che la fede si sono impoverite e sono divenute deboli l’una di fronte all’altra» (Fides et ratio, 48), nella convinzione che «non le varie opinioni umane, ma solamente la verità può essere di aiuto alla teologia» (FR 69). Se volgiamo lo sguardo alla teologia degli ultimi decenni, ci imbattiamo in convergenze fruttuose tra gli sviluppi del pensiero filosofico ed esigenze rilevanti dell’intelligenza della fede. Quanto ha influito l’intensa corrispondenza con Blondel – proprio a riguardo del metodo dell’immanenza, che egli aveva elaborato con grande intuizione a partire dalla fine dell’800 – sul recupero dell’autentica tradizione tommasiana circa il desiderium naturale videndi Deum operato da de Lubac? E ancora, cosa mai potremmo capire dell’antropologia soprannaturale e dell’idea del Salvatore Assoluto di Rahner senza ritornare all’impatto esercitato sul gesuita tedesco dalla rilettura di Tommaso in chiave trascendentale compiuta da Maréchal? E, ancora, cosa capiremmo della cristologia come Assoluto nella storia e dell’analogia libertatis come rielaborazione del classico tema dell’analogia entis all’interno del pensiero di Kasper, senza conoscere del suo interesse giovanile e mai sopito per l’ultima filosofia di Schelling? E, soprattutto, quanto di tutto questo non è stato la manifestazione dello sforzo della teologia di essere fedele alla tradizione e, ad un tempo, di intercettare l’evo moderno segnato dall’importanza predominante della soggettività?Ebbene, cosa resta oggi di quelle preoccupazioni di Giovanni Paolo II? Sono pensabili ancora interazioni sul modello di ciò che è accaduto nella teologia del ‘900? Quanto la filosofia attuale si mostra inquieta nella ricerca della verità, che – per dirla con il papa – sola può essere di aiuto al pensiero credente? In realtà, il nietzschiano “non ci sono fatti, solo interpretazioni” parrebbe ancora trovarsi a proprio agio nella nostra epoca. Di più, da assioma di buona parte della filosofia degli ultimi decenni, si è volgarizzato come forza trainante della vita ordinaria, quale linfa dello Zeitgeist, come unica paradossale certezza in un mare di liquida e dissolvente incertezza. Alcuni anni fa, uno spettro s’aggirò per qualche settimana tra le pagine dei giornali che contano. Uno spettro venuto su chissà da dove e che i nostri tempi fecero fatica a riconoscere, tanto risultava singolare: era lo spettro del “nuovo realismo”. Ben presto, le forze soverchianti del mainstream lo ricacciarono indietro nelle tenebre della storia, da dove esso era risalito inopinatamente. Cosa resta, ripetiamolo, di quelle esortazioni pontificie? Il pensiero debolissimo è forse ancora tutto ciò che la filosofia dei nostri giorni pare riuscire ad offrire alla teologia. Il che poi è dire che la filosofia odierna offre alla Chiesa e alla teologia ciò che essa non può sfruttare. Sempre che il magnifico insegnamento agostiniano secondo cui «cogitat omnis qui credit, et credendo cogitat, et cogitando credit» (De praedestinatione sanctorum, 2, 5) abbia per la Chiesa ancora un valore, si capisce…

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Francesco Vermigli

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