di Carlo Parenti • David Maria Turoldo e Loris Francesco Capovilla sono due uomini che hanno scommesso la loro vita sul vangelo al servizio della Chiesa, partecipi delle vicende della società e attenti ai bisogni degli “ultimi”. Due uomini che hanno attraversato il Novecento, accomunati nel loro credo, nell’aver capito la “svolta” del Concilio ecumenico vaticano II e l’indicazione giovannea dei “segni dei tempi”, uniti nel loro amore per la Parola, ma anche per la poesia, la cultura. Due uomini chiaramente diversi, ma che hanno condiviso la passione per l’annuncio, una sensibilità autentica nelle modalità per portarlo agli uomini del loro tempo e per testimoniare, di fatto, la loro quotidiana esperienza di cristianesimo, incarnandola nella storia del “secolo breve”.
Il 26 maggio 2017, in occasione del primo anniversario della morte del Card. Loris F. Capovilla, è uscito il libro di David Maria Turoldo e Loris Francesco Capovilla “Nel solco di papa Giovanni– lettere inedite ” a cura di Marco Roncalli e Antonio Donadio, con la postfazione di Gianfranco Ravasi e Bruno Forte (Servitium editrice).Questo epistolario “a due voci” è formato da cinquantasei testi in larga parte autografi risalenti al periodo 1963-1991: diciannove inviati da Turoldo a Capovilla e trentasette da Capovilla a Turoldo.
È Giovanni XXIII, scrivono i curatori, «il silente terzo protagonista» di questo intenso scambio epistolare: «Ci è parso bello, dopo aver riletto più volte quel che è stato possibile sino a oggi recuperare della loro corrispondenza, custodita tra le carte regestate nell’archivio di Fontanella, farne partecipi altri lettori».
Pur se dalle lettere non si evince la completa e complessa biografia di queste due grandi figure i curatori osservano che esse costituiscono tuttavia una valorosa testimonianza perché «possono ancora dirci qualcosa in più di questi due uomini che tanto hanno parlato e scritto». E con riferimento alla comune attenzione di Capovilla e Turoldo alla fede e alla poesia scrivono: «Aveva ragione Mario Luzi, amico di padre David, ad affermare che fede e poesia sono due (ammesso lo siano) termini o polarità di cui è impossibile parlare distintamente. Chi li ha chiari e certi e li vive in consapevolezza, non importa se armoniosa o disarmonica, dentro di sé non può tenerli separati, non ci riesce, non gli è dato» .
Leggendo l’epistolario emerge come Turoldo venga accompagnato con calore e stima da mons. Capovilla nel dare forma alla sua iniziativa di fare di Fontanella di Sotto il Monte un luogo aperto al dialogo, all’accoglienza, un “laboratorio” di rinnovata spiritualità e di linguaggio liturgico. Del pari mons. Capovilla viene compreso e sostenuto da Turoldo nel servizio chiamato a rendere alla Chiesa nella diverse sedi cui è stato destinato e infine nel luogo del suo ritiro a Sotto il Monte.
Mi colpisce una lettera di Turoldo (3 marzo 1967) che ai tempi –a cagione dell’essere un resistente sostenitore delle istanze di rinnovamento culturale e religioso di ispirazione conciliare- veniva accusato di non essere fedele alla Chiesa: «Dio sa la mia fedeltà alla Chiesa, alla gerarchia, sa la particolare devozione al Pontefice; e sappiamo tutti cosa costa una vocazione. E che dire di questa stampa, di questa nostra stampa italiana, letta e prediletta soprattutto in certi nostri ambienti romani? Sa i dispiaceri che ho avuto io in passato a causa del Borghese? E certi Monsignori che si muovevano in base ad accuse del Borghese o del Tempo, o altro di simile! Io sono pronto a patire di più che per il passato, ma per cose nobili, per ragioni che valgono e non per questi atti che spesso non sono neppure testimonianza di amore alla verità e alla Chiesa. Perché amore alla Chiesa vuol dire anche rispetto all’uomo chiunque esso sia: nel nome del Signore. Che, se vogliono sapere, io non mi sono mai trovato bene — nella Chiesa — come ora: e non ho che da lodare Iddio per essere sacerdote nel mio tempo. Ma non posso rispondere di quanto altri dicono o pensano di me. Invece sono pronto, come sempre ad accettare tutte le correzioni e i richiami che mi vengono dai miei superiori in carità fraterna. E di ciò non ho che da ringraziare il Signore perché così mi aiutano a salvarmi da eventuali errori. Scrivo, predico, e sono un bersaglio facile: ma sono anche contento di soffrire qualche cosa per la Chiesa. Tanto più quando sono aiutato da una carità e da una amicizia come la sua. Pronto dunque ad altri richiami e sempre disposto a dire grazie».
Infine -come scrive Gabriele Nicolò sul L’Osservatore Romano del 24 maggio 2017- “non meno significativa, e assai toccante, è la lettera che Capovilla scrisse a Turoldo, da Chieti, il 27 ottobre 1969”: «Mio caro Fratello, le voglio bene… La prego di programmare una passeggiata sin qua. Allora avremo modo di parlare a ruota libera». E nel constatare che le delusioni non mancano mai, Capovilla sottolinea che «i contatti veri sono difficili». Quindi è bene coltivarli e tutelarli. E infine dichiara: «Salvare la propria libertà è una tragedia continua»”.