La misericordia di Dio. Il discorso del papa ai partecipanti al Corso sul foro interno

443 319 Francesco Vermigli
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confessionale-di Francesco Vermigli • Quando papa Francesco ha parlato alle centinaia di partecipanti al Corso sul foro interno organizzato dalla Penitenzieria Apostolica, ai membri dello stesso dicastero e ai penitenzieri minori delle basiliche papali (la mattina di giovedì 12 marzo), non era ancora stata comunicata la decisione di indire un giubileo straordinario a partire dalla solennità dell’Immacolata. L’annuncio è infatti stato dato il giorno successivo, nella basilica di San Pietro, durante la liturgia penitenziale presieduta dallo stesso pontefice. Eppure quelle parole rivolte ai futuri e ai novelli confessori provenienti da ogni parte del mondo sono – a leggerle con attenzione – come un preludio allo stesso giubileo, consacrato alla divina misericordia.

Nel corso dei due anni di pontificato, sono state numerose le occasioni in cui il papa ha rivolto il proprio sguardo al sacramento della penitenza, al profilo del confessore, all’atteggiamento del penitente, che non ha alcuna ragione di temere un Dio che perdona. E anche questa volta il tema della misericordia è il leit-motiv del discorso; è come un grande manto sotto il quale vengono raccolti tutti i protagonisti e tutti i momenti del sacramento della riconciliazione. Va da sé che essendo stato un discorso rivolto in prima battuta a dei confessori, l’accento sia caduto su cosa significhi per la vita spirituale del prete esercitare tale ministero sacramentale. Per il prete la confessione può diventare occasione di conversione, di progresso nella vita spirituale, di trasfigurazione. Questo avviene perché – per così dire – la misericordia di Dio si trasmette: il contatto con coloro che sono stati toccati dalla presenza sanante di Dio che rinnova, risuscita, ricostruisce la vita interiore, deve essere colto dal prete come un invito potente all’esame di coscienza. Con le parole di papa Francesco: «Quante volte ci capita di ascoltare confessioni che ci edificano! […] Quanto possiamo imparare dalla conversione e dal pentimento dei nostri fratelli! Essi ci spingono a fare anche noi un esame di coscienza: io, sacerdote, amo così il Signore, come questa vecchietta? Io sacerdote, che sono stato fatto ministro della sua misericordia, sono capace di avere la misericordia che c’è nel cuore di questo penitente? Io, confessore, sono disponibile al cambiamento, alla conversione, come questo penitente, del quale sono stato posto al servizio?». In questo discorso – così come è accaduto in altre catechesi del papa sulla confessione – ricorre con frequenza la presentazione dei due atteggiamenti estremi che possono essere fatti propri dal ministro: quello del lassismo e quello del legalismo. Nel secondo si tende a negare a Dio la qualità che lo connota in sé e nella sua manifestazione nella storia, nel primo si abbassa al livello umano il mistero insondabile della sua essenza e del suo agire: in entrambi i casi si tratta, cioè, di un misconoscimento di cosa sia misericordia di Dio.

Se passiamo dalla figura del confessore al sacramento della penitenza in generale, nella prospettiva del papa esso si configura come un appello a porre davanti agli occhi sia del penitente sia del confessore solo la presenza sanante di Dio; un appello – si capisce – che potrà anche cadere nel vuoto di una vita spirituale abitudinaria e un poco sclerotizzata, tanto nel confessore, quanto nel penitente. Ma per chi pone attenzione a questa connotazione soprannaturale, la confessione può diventare la via principale del rinnovamento della vita interiore. Misericordia allora, se rettamente intesa – cioè se non è pensata alla maniera della linea lassista e se non è esclusa alla maniera di quella legalista – non è altro che il modo con cui si deve dire la presenza di Dio in questo mondo. Essa descrive l’atteggiamento del Dio Trino verso l’uomo; Lui che in sé è carità, che si dona e si riceve. E il luogo sacramentale in cui questo si manifesta e opera è per eccellenza la confessione.

Un’insistenza – quella del papa – che dice molto più di un insegnamento sulle condizioni di accesso al sacramento, sui vari momenti della celebrazione, sugli atti dei penitenti e sul profilo dei ministri. Svela un modo di pensare la vita spirituale, che intercetta la linea mistica della tradizione gesuitica, piuttosto che quella ascetica e volontaristica: la devozione a Pietro Favre – da Francesco ascritto nel novero dei santi con canonizzazione equipollente il 17 dicembre 2013 – si inserisce in questa linea, almeno così sembra. E la frase di un vecchio e celebre romanzo francese (“Tutto è grazia”) potrebbe essere messa ad esergo di questo discorso di pochi minuti tenuto davanti a centinaia di giovani preti, come del prossimo giubileo straordinario; forse ad esergo dell’intero suo pontificato. A questo, del resto, allude la scelta del suo motto: eligendo, sì, ma prima ancora miserando.

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Francesco Vermigli

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