di Carlo Nardi • Chissà che il ‘pagano’ Platone non aiuti a pensare e dire qualcosa di sensato sul purgatorio, specialmente sulla relativa pena. Dell’antico filosofo si ricorda volentieri il mito della caverna, con il quale intendeva delineare la situazione di noi umani in questo mondo. In particolare viene in mente l’immagine dei prigionieri in fondo alla caverna. Sono uomini che costretti da legami a voltare sempre le spalle alla fonte della luce solare che filtra dall’entrata dietro di loro. Così sono capaci di vedere e sono intenti a guardare soltanto ombre procurate da quanto sta dietro di loro. Devono contentarsi di ombre che si stagliano sulla parete che è davanti a loro. Non solo. Non avendo mai cambiata posizione, hanno visto soltanto fiochi barlumi, e non sanno e non pensano nulla di più: sono convinti che quelle ombre siano la realtà. Invece la varietà delle cose e dei viventi è alle loro spalle, illuminata da un sole che non hanno mai visto né immaginano.
Finalmente eccoli «sciolti da quei legami e da quello stato di ignoranza». Anzi, «ogni volta che uno è sciolto ed è costretto ad alzarsi, voltarsi, camminare e guardare verso la luce, nel far tutto questo sente male e per effetto di bagliori non è capace di vedere quelle cose di cui un tempo» almeno «vedeva le ombre» (Repubblica VII 314cd).
La scena immaginata da Platone è l’umanità tenebrosa, ma atta a vedere la luce di quello che il filosofo chiama l’Uno, il Bene, il Bello senza oscuramenti, paragonato al sole. Noi diciamo: umanità fatta per vedere Dio, ora con lucerna della ragione e nel chiaroscuro della fede, ma non ancora nella chiarezza della visione vera e propria, quella «faccia a faccia» (Paolo) di Dio «com’egli è» (Giovanni). E d’altra parte una visione luminosa improvvisa ed eccessiva lederebbe, forse distruggerebbe l’occhio e, anche se fosse dosata, abbaglierebbe alquanto un occhio pigro, mettendolo alla prova.
Chissà se il purgatorio non sia effetto di un abbaglio che sì fa soffrire l’occhio del senso, ma per abituarlo e abilitarlo a vedere il volto di Dio: intendo dire gli occhi della carità, ora in virtù della grazia e un giorno nell’eternità in virtù della gloria – lumen gloriae -, occhi che Dio rende idonei a vederlo mediante un disagio per eccesso di luce; ma è un disagio che guarisce ed educa. È un allenamento a ricevere vita e gioia, ulteriore liberazione verso la luce della pasqua definitiva.
Il mio rimuginare non è certo per spiegare e dimostrare. Basta per rintracciare un paragone e riflettere su una nostra esperienza vissuta, l’abbaglio, che può farci pensare sul serio ad una realtà da vivere, la visione di Dio, senza troppo pretendere d’averci azzeccato, ma confidando della beata purità di chi in paradiso vede e vedrà Dio (Mt 5,8).