Bontadini-Severino e…Agostino: disputa sull’essere e l’apparire

458 458 Dario Chiapetti
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emanuele-severino-questionario-proust-sliderdi Dario Chiapetti L’essente è eterno o caduco? E il divenire è un uscire degli essenti dal nulla e ritornarvi o l’apparire degli eterni? Attorno a questi interrogativi si è svolto il dibattito tra due delle più rilevanti figure della filosofia contemporanea, Gustavo Bontadini (1903-1990) e Emanuele Severino (1929), di cui ora vengono offerti al pubblico i momenti più significativi. L’essere e l’apparire. Una disputa (G. Bontadini – E. Severino, Morcelliana, Brescia 2017, 79 pp.) raccoglie i quattro scritti del confronto durato più di trent’anni e che riassumono gli aspetti della discussione nelle loro elaborazioni più mature.

La disputa tra i due pensatori ebbe inizio con la pubblicazione del noto saggio di Severino «Ritornare a Parmenide» in Rivista di filosofia neoscolastica nel 1964. In esso l’Autore mostrava la necessità che ogni essente fosse eterno. Spieghiamo brevemente. Tale dimostrazione si basa sul principio di non contraddizione parmenideo – l’essere è e non può non essere – ma non nella comprensione che ne aveva offerto Aristotele – “è necessario che l’essere sia quando è e che il non-essere non sia quando non è” – ma secondo la prospettiva platonica secondo cui il divenire, inteso come il venire dal nulla e il tornare dal nulla, non appare affatto per cui non è in alcun modo evidente. Il principio parmenideo esprime invece, secondo Severino, l’opposizione assoluta tra essere e non-essere per cui ogni essente è, in modo assoluto, opposto al nulla e non può darsi né un tempo né uno stato in cui tale ente non sia. Da tale principio se ne deriva quello per cui il divenire dell’esperienza è da intendersi come l’apparire degli eterni. Ma, scrive Severino, «la gran questione è che altro è che tale principio sia noto, altro è che se ne veda l’estrema potenza – e, insieme, l’estrema follia. Giacché si tratta di capire che quel che Parmenide afferma dell’“essere”, va invece affermato di ogni essente». Ora, come sostiene Bontadini – che accoglie il principio di Parmenide e ammette il divenire nel senso nichilistico(provenienza dellessente dal nulla e suo ritorno al nulla), quello che per Severino rappresenta la «pazzia di Dio» – «l’atto creatore non è qualcosa che sia originariamente diverso dalla realtà diveniente, che le sia estraneo: anzi è più intimo a essa che non essa a sé medesima. Il divenire non è niente che è fuori dell’atto creatore, il quale pone e toglie, “suscita e atterra”». Se per Bontadini Dio non è un «tappabuchi», Severino mostra come la prospettiva del suo maestro dica esattamente il contrario: «è proprio Bontadini a dirci che i buchi (cioè il “non essere dell’essere”, la “ferita della negatività”) è “Dio” e non il nulla a farli». A ben guardare, per Bontadini, l’aspetto di Annullatore proprio di Dio sana la contraddizione inoculata dal non, dal negativo, per cui «quell’andare nel nulla (e similmente il venire dal nulla!) che risulta sul piano fenomenologico è risolto nel far andare nel nulla (e similmente nel trarre dal nulla), che è, in quanto fare, un positivo. Il negativo fenomenologico è un positivo metafisico». Pare proprio questa la questione. Severino critica a Bontadini di sostenere che «se qualcosa – un eterno! – esce dall’esperienza, allora è venuto meno (= andato nel nulla)». L’obiezione è formulata correttamente e rivela il punto insuperabile di avvicinamento delle due posizioni: quello che è un negativo contraddittorio per Severino è un positivo effettivo per Bontadini.

La discussione è certo stimolante. Mi sembra che la questione dell’essere e del non essere, della distinzione e dell’alterità, celi la questione ancor più profonda di come concepire l’essere stesso: e qui l’ontologia che scaturisce dalla rivelazione cristiana ha da offrire il suo contributo.gustavo-bontadini-102348

Agostino d’Ippona, a partire da quellesperienza personale di Luce che, purificando il suo sguardo, lo ha orientato dinamicamente verso la fonte di tale Luce, la Verità, è stato uno dei primi a comprendere che tale esperienza, e il conseguente sforzo di intelligere il dato dogmatico di fede a cui egli si è abbandonato in obbedienza ad essa, conduceva ad una comprensione dell’essere come dinamica d’unità tra distinti, le Persone divine. Ora, una simile prospettiva si oppone certo alla negazione di ogni predicazione d’alterità del Parmenide di Platone o del neoplatonismo di Plotino: essa rappresenta, secondo J. Ratzinger, «un’autentica rivoluzione del quadro del mondo […] il superamento di ciò che chiamiamo oggi “pensiero oggettivante” […] un nuovo pensiero dell’essere».

Allora se, come sostiene Severino, «tutto è eterno», in un’ontologia, così come può essere colta dalla rivelazione divina, l’eternità di ogni essente è proprio quel «positivo metafisico» che passa attraverso il «negativo fenomenologico» bontadiniani. Ora, ogni essente è eterno in virtù proprio della croce/risurrezione di Cristo: atto eterno in quanto divino, storico in quanto eterno (l’apparire delleterno severiniano), e spazio in cui ogni essente continuamente scompare per il suo continuo darsi/consumarsi e continuamente appare per il suo continuo riceversi dal Padre per mezzo dello Spirito (è questo nient’altro che il dinamismo vitale del cristiano che trova nella logica sacramentale, e in particolare battesimale, la sua massima realizzazione). Quindi, ancor di più, se il divenire è l’apparire degli eterni, tale divenire non afferisce al solo aspetto fenomenologico ma trova a livello ontologico la sua condizione di possibilità: il ‘divenire’ in quanto dinamismo del – come formulerà in seguito A. Rosmini – «dare tutto»/«ritenere tutto» è costitutivo dell’eternità degli eterni. È questa la prospettiva che apre la “rivoluzione metafisica” di cui Agostino è uno dei pionieri: alterità e relazione sono nozioni ontologiche che dicono l’unità, l’eternità e l’immutabilità dell’essere, del Dio “amante”, “amato” e “amore”, e di ogni essente nella misura in cui esso si dà ontologicamente – e non solo intenzionalmente – all’essere, fino a ontologicamente da questo riceversi.

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Dario Chiapetti

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