Chiose al «Dante» di Barbero

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di Andrea Drigani · «Dante dev’essere morto nelle prime ore della notte fra il 13 e il 14 [settembre 1321]. Quella notte il profeta andò a scoprire se quanto aveva immaginato in tutti quegli anni era vero». Con queste parole Alessandro Barbero termina il suo «Dante» recentemente edito per i tipi della Laterza. In tal modo mi sembra che voglia indicare nella profezia la cifra della vita e delle opere di Dante. Non si tratta di un’osservazione nuova, basti pensare alla voce «Profetismo» redatta da Raoul Manselli (1917-1984) sull’Enciclopedia Dantesca e agli studi di Guglielmo Gorni (1945-2010) il quale affermò che «la Commedia in sé, in quanto tale, è un libro profetico, non già, semplicemente, un libro che colleziona profezie». Il libro di Barbero, tuttavia, ci sospinge, in questo centenario dantesco, a riflettere ancora una volta sul profetismo di Dante e più generale sul profetismo, a partire dalla Sacra Scrittura. Il cardinale Gianfranco Ravasi rileva che, nella storia d’Israele, il profeta non è tanto l’annunciatore di un futuro remoto, ma un uomo che agisce e parla nel suo presente, intuendo i segni dei tempi, attraverso il dono di un carisma divino. Il suo compito primario – precisa il cardinale Ravasi – è quello di svelare il senso segreto teologico della storia che il popolo sta vivendo, indicandone la nascosta, ma efficace, azione divina. Nella Bibbia sono diversi i termini con i quali si definisce il profeta: colui che è chiamato o colui che chiama, uomo cha ha visioni, veggente, uomo di Dio, uomo che parla a nome di un altro, davanti ad altri o prima di un evento. Il cardinale Ravasi annota, altresì, che il profeta è incomprensibile se sradicato dal suo tempo, perché la sua missione è all’interno della storia per andare oltre la storia con una validità universale e perpetua. Viene in mente l’oracolo del profeta Michea: «Uomo, ti è stato insegnato ciò che è buono e ciò che richiede il Signore da te: praticare la giustizia, amare la bontà, camminare umilmente con il tuo Dio» (6,8). La storia sacra fa emergere che i profeti, sovente, sono stati inascoltati se non addirittura contrastati, contestati, rifiutati e perfino perseguitati. Dal libro di Barbero, che presenta un’ampia bibliografia e un cospicuo apparato di note, si può evincere che la dimensione profetica in Dante non è da considerarsi azzardata e fuori luogo, bensì, assai fondata. Innanzitutto per la costante e continua riaffermazione nell’Alighieri, in tutti i suoi scritti dalla Commedia, alla Monarchia, alle Epistulae, dei principi supremi della tradizione cristiana quali quelli del bene comune, delle città e dell’universo, del rispetto assoluto della giustizia vera causa di ordine e di pace, del perenne rinnovamento della Chiesa per rimediare alle deformazioni e alle degenerazioni, respingendo le tentazioni ereticali. La fedeltà, senza compromessi, a questi principi vissuti da Dante nella sua attività politica e amministrativa a Firenze, fecero di un lui un «bandito», secondo la dizione medievale, cioè cacciato con un bando, sotto pena di morte in caso di rientro in città, a meno di un’ infamante penitenza. Questa triste e dolorosa esperienza di «bandito», che contraddistinse gli ultimi anni della vita di Dante, come ben descrive Barbero, rafforzarono e dilatarono il suo ministero profetico anche per non far dimenticare il «novissimo bando» (Purg. XXX,13): il Giudizio universale.

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