Il concetto giuridico di «diritto proprio» esemplificato attraverso l’impianto giuridico della famiglia carmelitana teresiana

318 481 Francesco Romano
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di Francesco Romano • Sintesi storica di un concetto giuridico. Nell’ambito dell’ordinamento giuridico della Chiesa il significato del binomio «diritto comune» [da ora DC] – «diritto proprio» [da ora DP] e la reciproca relazione fondata sulla ratio condivisa, può essere meglio compreso partendo dalle fonti storico giuridiche. DP e DC sono termini con cui nella storia del diritto medievale si identifica l’esperienza giuridica che andò sviluppandosi in Europa sin dal X secolo, con il suo apice tra il XII e il XIII secolo, sul fondamento universalistico di unità della società cristiana che, nel suo aspetto temporale, si incarnò nel Sacro Romano Impero.

Il diritto romano riscoperto dal giurista Irnerio nei frammenti del Codice di Giustiniano viene rielaborato dai maestri della scuola di Bologna, quale scienza autonoma rispetto alle artes liberales, realizzando una normativa giustinianea come ufficiale diritto vigente. Si viene così a concretizzare l’idea di una società cristiana legata non solo da una fede, ma anche da una legge «comune». Anche i testi canonistici recepiranno queste norme riscoperte del diritto romano come lex saeculi della Chiesa.

Nel pensiero dei giuristi medievali il ritrovato diritto romano è universale perché è il diritto di tutto l’Impero ed è anche «comune» perché con funzione sussidiaria sono giustapposti, senza configgere, i vari iura propria, cioè i vari DP di ciascuna comunità politica all’interno dell’Impero rappresentati da statuti, consuetudini ecc. Un’altra descrizione del DC la ritroviamo in un frammento delle Istituzioni di Gaio nel Digesto per designare il diritto delle genti fondato sulla naturalis ratio, quale patrimonio condiviso dall’intera comunità umana e distinto dagli iura propria delle singole civitates: «Omnes populi qui legibus et moribus reguntur partim suo proprio partim communi omnium hominum iure utuntur» (D. I, I, 9).

In sostanza, il diritto dell’Impero è «comune» perché a esso si collegano una molteplicità di diritti particolari sorretti da una «comune» ratio. Il DC è tale perché postula una pluralità di sistemi normativi – vedi ad es. i vari diritti statutari, consuetudinari ecc. – riconoscendo la funzione sussidiaria o suppletiva per i suoi principi generali e categorie astratte capaci di comprendere giuridicamente un numero indefinito di fatti dell’esperienza. La legittimazione del DP nell’alveo del DC dell’Impero romano-germanico medievale, concepito come respublica christiana, permetterà a ciascuna comunità politica di reggersi – sempre secondo una ratio «comune» fondata sull’universalità dell’unum ius – con leggi proprie in ossequio alla propria storia, consuetudini e specifiche finalità da realizzare.

Analogia con il diritto canonico. Il Codice di Diritto Canonico (d’ora in poi CIC), che costituisce una parte del più ampio ordinamento giuridico vigente nella Chiesa universale, appartiene al «diritto comune» della Chiesa, quale principio informatore e ratio dei vari «diritti propri» che regolano le molteplici strutture, circoscrizioni e categorie di persone al suo interno. Il II Libro del CIC contiene norme «comuni» per le specifiche forme di vita consacrata che obbligano in tutta la Chiesa (cf cann. 573-730).

Specularmente al DC sta il DP di una determinata forma di vita consacrata, meglio conosciuto come costituzioni. In questi casi il DP è così chiamato perché è il singolo Istituto di vita consacrata (d’ora in poi IVC) che se lo dà con l’approvazione della competente Autorità della Chiesa (cf can. 587 §2). Il DC, in quanto generale, lascia a ogni IVC spazi di «giusta autonomia» normativa (cf can. 586 §1), che non significa contrapposizione antinomica o configgente, con funzione sussidiaria e di ratio nella elaborazione del DP.

Il «patrimonio», di cui al can. 578, è custodito nel DP e riguarda l’intendimento (mens) e i mezzi di attuazione (proposita) del fondatore, ma soltanto tra quelli che la competente Autorità della Chiesa intende sancire, le sane tradizioni quali elementi in grado di innovare conservando la fedeltà al «patrimonio», la natura, il fine e l’indole dell’Istituto. Pertanto, il DP di ogni Istituto, che il Legislatore riconosce (cf can. 586 §1: agnoscitur) quale diritto nativo, è dato dalle costituzioni che ne custodiscono il «patrimonio» e includono le norme sul governo, la disciplina dei membri, la loro formazione e incorporazione, l’oggetto proprio dei sacri vincoli (cf can. 587 §1).

Ciascun «diritto proprio» contraddistingue la realtà composita di cui è strutturata la famiglia teresiana – La famiglia carmelitana teresiana dal punto di vista giuridico è una realtà composita le cui singole espressioni si riconoscono nella codificazione di ciascun DP che trova la comune ispirazione nella Regola di S. Alberto, confermata da Innocenzo IV (cf Cost frati OCD frati, nn. 3; 5; 9; 18; Cost monache OCD, n. 16; COSCS, n. 6), nel carisma e nell’insegnamento di S. Teresa e di S. Giovanni della Croce (cf Cost OCD frati, nn. 12-13; Cost monache, n. 14; COSCS, nn. 6-8).

Il DP della famiglia teresiana è quindi espresso dalle Costituzioni e dalle Norme Applicative dei Fratelli Scalzi (d’ora in poi Cost frati OCD), dalle Costituzioni delle Monache Scalze (d’ora in poi Cost monache OCD) e dalle Costituzioni dell’Ordine Secolare dei Carmelitani Scalzi (d’ora in poi COSCS). Anche gli IVC aggregati all’Ordine, che godono di una prossimità spirituale con la famiglia teresiana, nascono con un loro DP che presenta, oltre alla Regola, elementi specifici che includono nelle proprie Costituzioni la mens e i proposita dei rispettivi fondatori (cf can. 578).

Nel Carmelo Teresiano il DP segue la ratio ispiratrice del DC che esige di essere fedeli alla «mens» e ai «proposita» dei fondatori» (cf can. 578; Cost frati OCD, n. 11), ed è stato elaborato con il discernimento e l’approvazione della competente Autorità della Chiesa, secondo i principi del Vaticano II (PC; LG) e del Magistero (ES; ET; MR; CIC).

Il rapporto tra DC e DP, con la comune ratio che vi soggiace, può essere così sintetizzato: «Le norme proposte dalla S. Madre nelle Costituzioni del 1567 e posteriormente confermate nel 1581, come pure le altre norme stabilite nelle Costituzioni di Alcalá, sono state assunte nelle presenti Costituzioni, salvo le modifiche ritenute necessarie per la retta applicazione dei principi del Concilio Vaticano II e delle disposizioni del Diritto Canonico, restando comunque inalterato il carisma teresiano e il modo di vita proposto dalla stessa S. Teresa nelle Costituzioni e negli altri suoi scritti» (Cost monache OCD, n. 14; cf anche Cost frati OCD, n. 16).

I Testi Costituzionali:

Le vigenti Costituzioni dei Fratelli Scalzi dell’Ordine della Beata Vergine Maria del Monte Carmelo, già adattate il 7 giugno 1981 secondo le direttive del Concilio Vaticano II, sono state di nuovo adattate alle prescrizioni sulla vita religiosa emanate dal nuovo CIC del 1983 e approvate il 5 marzo 1986 dalla Congregazione, allora denominata «Congregazione per i Religiosi e gli Istituti Secolari». Conseguentemente, anche le Norme Applicative sono state sottoposte a revisione e approvate dal Definitorio Generale il 17 maggio 1986.

Le Costituzioni delle monache, sotto il titolo Regola e Costituzioni delle Monache Scalze della Beatissima Vergine Maria del Monte Carmelo adattate secondo le direttive del Concilio Vaticano II e le norme canoniche vigenti approvate dalla Sede Apostolica l’anno 1991, sono state approvate dalla Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica (d’ora in poi CIVCSVA) il 17 settembre 1991. Queste Costituzione sono state adottate da quei monasteri che hanno accettato, nel rispetto della propria autonomia, di essere associati all’Ordine o che, per speciale disposizione della Sede Apostolica, sono stati affidati alla peculiare vigilanza del Vescovo diocesano (cf cann. 614 e 615; Cost monache OCD, nn. 201a, b; 241; 244; 245).

Occorre anche segnalare l’altro testo delle Costituzioni delle Monache Carmelitane Scalze, Regola e Costituzioni delle Monache Scalze della Beatissima Vergine Maria del Monte Carmelo, approvate dalla CIVCSVA l’8 dicembre 1990, che sottolineano in spirito di «dissociazione» dall’Ordine: «Oggi, le profonde modificazioni introdotte nella legislazioni dei Padri Carmelitani sono state la causa per cui tale dipendenza non ha più motivo di essere» (Cost monache OCD 1990, Proemio) ed esplicitamente riaffermano la dipendenza dal Vescovo diocesano a norma del can. 615: «In quanto alla condizione giuridica […] i nostri monasteri […] non hanno altro superiore maggiore al di sopra della priora se non la Santa Sede, né sono associati ai Frati Scalzi in modo che il Preposito Generale abbia su di essi qualche potestà. Di conseguenza, sono sottoposti alla vigilanza del Vescovo diocesano a norma del Diritto, cf can. 615» (Cost monache OCD 1990, n. 133). A questo proposito va ricordato che alcuni monasteri che optarono per queste Costituzioni del 1990 hanno ottenuto la facoltà di seguire le Costituzioni approvate nel 1991 nei punti che riguardano il rapporto con il Preposito Generale.

L’Ordine Secolare dei Carmelitani Scalzi, comunemente noto come Terzo Ordine, secondo il Codice di Diritto Canonico deve essere collocato tra le associazioni di fedeli (cf can. 303), è regolato dalle Costituzioni dell’Ordine Secolare dei Carmelitani Scalzi che la CIVCSVA approvò in via definitiva il 16 giugno 2003, contrariamente alla richiesta ad experimentum per cinque anni. In esse sono stati integrati alcuni articoli approvati dalla CIVCSVA il 7 gennaio 2014. Inoltre, le fraternità a livello regionale e provinciale avranno rispettivamente i propri Statuti (cf COSCS, n. 42).

Al DP appartiene anche la normativa accessoria cioè le norme applicative, i direttori, i regolamenti ecc. (cf can. 587 §4). Ne deriva che il DP include le costituzioni, ma non si esaurisce con esse. Infatti, l’osservanza di una norma può essere richiesta con due espressioni che non sono univoche: «a norma delle costituzioni» oppure «a norma del diritto proprio». Il primo caso si limita a richiedere l’osservanza delle costituzioni. Il secondo caso richiede l’osservanza per casi specifici di norme che possono trovarsi sia nelle costituzioni che nelle norme applicative ecc. (cf Communicationes 1(1983)70, can. 553).

Pertanto, il DP teresiano individua e definisce gli elementi oggettivi del carisma ed è dato in particolare dalla Regola e dalle Costituzioni, quale «patrimonio» trasmesso in eredità da S. Teresa di Gesù, rinnovato secondo le norme della Chiesa. La normativa accessoria rende esplicita e attualizza la norma fondamentale. In molti passaggi delle Costituzioni possiamo leggere espressamente anche il rinvio ai canoni del CIC.

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Francesco Romano

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