di Francesco Romano • La partecipazione attiva di un cattolico ai riti sacri dei fratelli separati non aventi la piena comunione con la Chiesa cattolica e, similmente, la partecipazione dei fratelli separati ai riti sacri dei cattolici, va sotto il nome di communicatio in sacris. Nel CIC del 1917 era proibito in modo assoluto di assistere o partecipare nelle funzioni degli acattolici (cf. can. 1258). La communicatio in divinis era addirittura riprovata come delitto (cf. can. 2316).
Il Concilio auspicò un nuovo inquadramento della questione ecumenica su due versanti, cercare l’unità senza pregiudizio per la verità; tutelare la dignità per ogni battezzato che, in quanto incorporato a Cristo, è vincolato anche se in modo imperfetto, alla Chiesa di Gesù Cristo, qualunque sia la comunità in cui ha ricevuto il battesimo.
I principi conciliari riguardanti la communicatio in sacris rappresentano la fonte normativa delle disposizioni che seguiranno fino al Codice del 1983.
Nel Decreto “Orientalium Ecclesiarum” viene stabilito il principio che: “è proibita dalla legge divina la comunicazione delle cose sacre che offende l’unità della Chiesa o include la formale adesione all’errore o il pericolo di errare nella fede, di scandalo e di indifferentismo” (OE, 26).
Il Decreto “Unitatis Redintegratio” auspica che i cattolici si uniscano con i fratelli separati per pregare in determinate occasioni, ma sottolineando la non liceità della comunione nelle cose spirituali come un mezzo per ristabilire l’unità tra i credenti: “Questa comunione dipende soprattutto da due principi, dalla manifestazione dell’unità della Chiesa e dalla partecipazione dei mezzi di grazia. La manifestazione dell’unità vieta per lo più la comunicazione. La partecipazione della grazia talvolta la raccomanda” (UR, 8).
Il can. 844 del CIC disciplina tutti gli aspetti riguardo alla comunicazione nei sacramenti dell’Eucaristia, della Penitenza e dell’Unzione degli infermi a favore dei membri delle Chiese orientali, che non sono in piena comunione con la Chiesa cattolica, ma le sono vicino nella fede verso questi sacramenti, se li chiedono spontaneamente e se sono ben disposti. La stessa regola vale per i membri di altre Chiese che a giudizio della Sede Apostolica si trovano nella medesima condizione delle Chiese orientali (cf. can. 844 §3).
Quel che più interessa a noi per l’argomento che stiamo trattando riguarda il lecito conferimento degli stessi tre sacramenti anche agli altri cristiani che non sono in piena comunione con la Chiesa cattolica, qualunque sia la Chiesa o la comunità, a cinque condizioni: a) vi sia pericolo di morte; b) altra grave necessità a giudizio del Vescovo diocesano o della Conferenza Episcopale; c) non hanno la possibilità di rivolgersi a un ministro della propria comunità; d) lo chiedono spontaneamente; e) manifestano circa i detti sacramenti la medesima fede cattolica e siano ben disposti (cf. can. 844 §4).
Vista sotto la lente della riflessione ecumenica non poteva rimanere fuori la celebrazione del matrimonio misto, soprattutto delle coppie cattoliche riformate. I matrimoni misti non rientrano tra i casi di comunicazione nei sacramenti, non escludendo però che lo siano nel culto liturgico. Il “Direttorio Ecumenico” sottolinea che nei matrimoni misti prevale la norma generale sia per i cristiani orientali quanto per gli altri cristiani per cui “sebbene gli sposi di un matrimonio misto abbiano in comune i sacramenti del battesimo e del matrimonio, la condivisione dell’Eucaristia non può essere che eccezionale, e in ogni caso vanno osservate le disposizioni indicate” (DE, 1993, 159-160). La regola generale è quella espressa dal can. 844 §1 secondo la quale i ministri cattolici amministrano lecitamente i sacramenti soltanto ai fedeli cattolici, i quali li ricevono lecitamente solo dai ministri cattolici”. La via eccezionale riguarda l’amministrazione ammessa dei tre sacramenti, Eucaristia, Penitenza e Unzione degli infermi, se ricorrono le clausole restrittive di cui abbiamo sopra precisato (cf. can. 844 §§3-4).
Il m. p. “Matrimonia mixta”, promulgato nel 1970 da Paolo VI, oltre a sconsigliare tali matrimoni, si limita a dare disposizioni che rimandano alla legge generale: “Quando manca questa unità di fede circa i sacramenti, la partecipazione dei fratelli separati con i cattolici, specie ai sacramenti dell’Eucaristia, Penitenza e Unzione degli infermi è proibita” (DE, 1967, n. 55).
Anche l’Esortazione ap. “Familiaris consortio” di Giovanni Paolo II ribadisce le disposizioni date da Paolo VI circa la condivisione dell’Eucaristia delle coppie miste. Ugualmente la recente Esortazione ap. “Amoris Laetitia” nell’unico paragrafo dedicato alle coppie miste ribadisce il rimando alla legge generale: “Circa la condivisione eucaristica si ricorda che la decisione di ammettere o no la parte non cattolica del matrimonio alla comunione eucaristica va presa in conformità alle norme generali esistenti in materia, tanto per i cristiani orientali quanto per gli altri cristiani. […] Sebbene gli sposi di un matrimonio misto abbiano in comune i sacramenti del battesimo e del matrimonio, la condivisione dell’Eucaristia non può che essere eccezionale e, in ogni caso, vanno osservate le disposizioni indicate” (AL, 247). Di conseguenza Papa Francesco con i Padri sinodali ritiene di non stabilire norme speciali per le coppie miste
La Santa Sede a più riprese dal 1967, a cominciare dal Direttorio Ecumenico, è intervenuta per la retta interpretazione della communicatio in sacramentis con i fedeli riformati in modo che si evitasse l’instaurarsi una pratica di intercomunione regolare che prendesse il posto della communicatio in sacramentis nei casi eccezionali, ovvero nel caso di pericolo di morte o di altra urgente necessità. Alcuni casi di questa pratica di intercomunione erano legati alla vita familiare nei matrimoni misti tra cattolici e cristiani riformati, come per esempio il desiderio di una coppia di ricevere insieme la comunione veniva configurato come una situazione di “grave bisogno spirituale” da poter rientrare nel can. 848 §4 per rimediare al pericolo che può correre il matrimonio e la fede.
La Santa Sede non ha mai concesso la recognitio, anzi ha riprovato quelle indicazioni date da alcune Conferenze Episcopali in cui le necessità non fossero ritenute “urgenti”, “gravi” ed “eccezionali” in quanto contrarie alla legge universale. Tuttavia, spesso venivano promosse contra legem prassi pastorali riprovate da causare nei fedeli o negli stessi ministri “formale adesione all’errore o il pericolo di errare nella fede, di scandalo e di indifferentismo”. Come ha dichiarato il Concilio Vaticano II: “La communicatio in sacris che pregiudica l’unità della Chiesa o include formale adesione all’errore o pericolo di errare nella fede, di scandalo o di indifferentismo, è proibita dalla legge divina” (OE, 26).
La communicatio in sacris con i cristiani riformati non è esclusa in assoluto, ma è prevista dal can. 844 §4 solo come caso limite quando vi è urgenza e allontanato il pericolo di scandalo e indifferentismo. Il fondamento di questa norma è la necessità della fede e dei sacramenti per la salvezza, insieme alla fede cattolica e alle disposizioni per ricevere la grazia.
La situazione di emergenza come il pericolo di morte o l’urgenza di altra grave necessità prevale sulla presunzione che il battezzato di una Chiesa riformata non abbia o non conosca la fede cattolica da poter manifestare la stessa fede nei sacramenti, da chiederli spontaneamente ed essere ben disposto. Venendo meno la presunzione che non vi sia a sua volta la presunzione della medesima fede cattolica nei sacramenti e i pericoli da evitare secondo la legge divina di scandalo o indifferentismo, ed essendo in gioco la salus animae, sarebbe superfluo far premettere all’amministrazione dei sacramenti l’incorporazione alla Chiesa cattolica.
La rete delle famiglie interconfessionali (IFIN) propose una pastorale adeguata alla peculiare vocazione e missione che le famiglie interconfessionali avrebbero nella Chiesa e nel mondo e che dovrebbe includere “una regolare condivisione eucaristica”. In alcuni casi si fa riferimento al forte desiderio di ricevere la comunione quando il figlio riceve la prima comunione e allo smarrimento del figlio che vede uno dei genitori rimanerne escluso; oppure lo scandalo che suscita in un bambino assistere alla divisione tra genitori nel beneficiare dei mezzi apportatrici della grazia.
Non ha trovato spazio la regola della trasformazione dei desideri in bisogni e, quindi, in diritti. La condivisione dell’Eucaristia nei matrimoni misti non ha trovato spazio nell’Instrumentum laboris della Segreteria Generale del Sinodo dei Vescovi per il Sinodo del 2015 in quanto la norma universale prevede che vi sia la necessità, la gravità e l’urgenza. La risposta la troviamo in “Amoris Laetitia” n. 247 che ritiene che non si debbano introdurre norme speciali riguardo alle coppie miste.
La Conferenza Episcopale Tedesca aveva trovato l’accordo sulla possibilità di ammettere in determinati casi alla comunione eucaristica il coniuge protestante nei matrimoni misti approvando un sussidio orientativo intitolato, “Camminare con Cristo. Sulle orme dell’unità. Matrimoni interconfessionali e partecipazione comune all’eucaristia”, secondo cui, nei matrimoni misti e in singoli casi, si poteva ammettere alla comunione anche il partner protestante. Si diceva in particolare: «I vescovi hanno votato un “aiuto orientativo” destinato a consentire ai partner evangelici di ricevere questo sacramento, a determinate condizioni. Presupposto è che i partner evangelici “dopo maturo esame in un colloquio con il parroco o con un’altra persona incaricata dal pastore d’anime” siano giunti in coscienza ad acconsentire alla fede della Chiesa cattolica, mettendo così fine ad “una grave situazione spirituale e vogliano soddisfare il desiderio ardente di ricevere l’Eucaristia”».
Il Papa, attraverso la Congregazione per la Dottrina della Fede, aveva deciso di rinviare il problema ai Vescovi tedeschi, esprimendo il desiderio che «fosse trovata una direttiva possibilmente unanime in uno spirito di comunione». Ora, la lettera del 25 maggio 2018 del Card. Ladaria ai Vescovi tedeschi, riferendosi al sussidio di Ingolstadt-Würzburg, precisa che «Il Santo Padre è giunto alla conclusione che il documento non è maturo per essere pubblicato».
La lettera della Congregazione per la Dottrina della Fede è indirizzata al card. Reinhard Marx, presidente della Conferenza Episcopale Tedesca. Vengono elogiati i molteplici sforzi ecumenici di essa e del Consiglio della Chiesa Evangelica, ma per quanto riguarda il sussidio si dice che esso solleva una serie di problemi di notevole rilievo per la stessa Chiesa universale e che ha inoltre degli effetti sui rapporti ecumenici con le altre Chiese e comunità ecclesiali. Si aggiunge anche che il Papa esprime il desiderio che nella Conferenza Episcopale Tedesca rimanga vivo lo spirito della collegialità.
Quindi, in conformità alla legge universale, oltre al pericolo di morte imminente, un’altra grave causa può essere giustificata solo se urgente e quindi, come tale, transitoria e indifferibile, grave ed eccezionale, sempre restando fermo che il cristiano non in piena comunione con la Chiesa cattolica non possa rivolgersi a un ministro della propria comunità.
Non hanno invece ottenuto la recognitio le indicazioni della Conferenza Episcopale Tedesca che motivano la partecipazione comune all’Eucaristia da parte delle coppie interconfessionale come desiderio di ricevere insieme la Comunione come grave bisogno spirituale che può mettere in pericolo il matrimonio e la fede.
Diverso è il caso delle coppie di matrimoni misti in cui la parte non cattolica appartiene alla Chiesa orientale (cf. can. 844 §3). La norma sulla communicatio in sacris è più flessibile perché pur non essendoci la piena comunione con la Chiesa cattolica, le Chiese orientali hanno veri sacramenti e soprattutto, grazie alla successione apostolica, il sacerdozio e l’Eucaristia sono uniti alla Chiesa cattolica “con uno strettissimo vincolo” (UR, 15).