di Gianni Cioli • La qualificazione della fede come virtù, e come virtù teologale, è frutto di un percorso lungo e complesso attraverso il quale si è pervenuti a una sorta di categorizzazione di quell’evento fondamentale e fondativo che è la fede nell’orizzonte della rivelazione biblica e, in particolare, neotestamentaria.
L’esperienza della fede è stata vissuta dai cristiani prima che la si definisse come virtù. È un concetto che si colloca nel cuore del messaggio evangelico. Nei vangeli sinottici e nelle lettere paoline la fede assume un significato eminente. Il termine ricorre in questi scritti con frequenza impressionante ed esprime un atteggiamento decisivo per l’accoglienza della salvezza. «La tua fede ti ha salvato» (Mc 10,52; Lc 18,42) dice Gesù al cieco di Gerico. «Il giusto vivrà mediante la fede» (Rm 1,17) scrive programmaticamente Paolo all’inizio della lettera a i Romani citando il profeta Abacuc. Nelle pagine del Nuovo Testamento fede significa fidarsi di Dio che si rivela in Gesù Cristo; aderire con la mente, il cuore e con la professione delle labbra al Signore che è morto per noi; credere alla verità della sua risurrezione che manifesta la sua figliolanza divina (cf. Rm 10,9). Nel corpus paolino (1Cor 13,13; cf. 1Ts 5,8; Gal 5,5s; Rm 5,1-5; 12,6-12); e poi anche nella prima lettera di Pietro (1Pt 1,3-9) la fede viene associata alla speranza e alla carità.
Attraverso la riflessione patristica e i suoi sviluppi medievali la «santa triade» (Clemente Alessandrino, Stromatéis IV,7) di fede, speranza e carità ha finito per affermarsi nella chiesa come una realtà unitaria ricollegandosi, soprattutto attraverso l’opera di Agostino (Enchiridion ad Laurentium de fide, spe et caritate 9,31), ad una più articolata e profonda riflessione sulla grazia. Solo tra il secolo XII e XIII questo processo giunge a piena maturazione quando si cominciò a parlare di virtù, non più nell’accezione generica di forza e abilità, ma in senso più rigoroso e formale di abito operativo buono, e la fede, la speranza, la carità cominciarono ad essere considerate “virtù teologali”. Tommaso d’Aquino nella Summa Theologiae esplicita con grande acutezza il significato della qualifica “teologali” per le tre virtù: «hanno Dio per oggetto, in quanto attraverso esse le persone sono ordinate rettamente a Dio; sono infuse da Dio solo; sono conosciute solo attraverso la rivelazione di Dio nella scrittura» (Tommaso d’Aquino, Summa teologiae, I-II, q.62, a. 1c). Nel corso del XII secolo fede, speranza e carità, per costituire un settenario, erano state associate a prudenza, giustizia, fortezza e temperanza. Queste ultime furono comunemente designate come virtù cardinali intorno al 1200, ma l’idea di una loro preminenza si era già sviluppata nel corso nell’antichità greca e romana con Platone (Repubblica, 427a) e Cicerone (De officiis, I, 5), era stata accolta nella riflessione patristica soprattutto attraverso Ambrogio di Milano (De officiis ministrorum, I, 24,115) e si era trasmessa al Medioevo latino e godendo di particolare fortuna nella produzione letteraria dei teologi carolingi.