di Francesco Vermigli · Con la lettera apostolica Patris corde – promulgata l’8 dicembre 2020 – papa Francesco ha voluto rinnovare la devozione a san Giuseppe tra i cristiani e inaugurare un anno dedicato alla sua figura; a 150 anni dalla proclamazione a patrono della Chiesa universale, per volontà di Pio IX. Fu, quello, un atto promulgato da Pio IX, in vinculis, per così dire: freschissima era ancora la memoria della breccia di Porta Pia (20 settembre), con il pontefice costretto all’interno della cerchia delle Mura leonine.
La ricorrenza permette di apprezzare, per transennam, la distanza della nostra da un’epoca come quella, connotata dalle grandi tensioni tra il Piemonte sabaudo e ciò che rimaneva dello Stato Pontificio. Ci permette di cogliere come la chiamata di san Giuseppe a patrono della Chiesa fosse stata concepita anche a partire dall’urgenza di quei tempi, nei quali si percepivano crescenti gli attacchi alla Chiesa. Eppure, dall’altro lato, ci permette di apprezzare quanto – in questo anno 2020 – il rinnovarsi di questa invocazione della custodia di Giuseppe sulla Chiesa valichi le epoche e le situazioni storiche che possano averne originato la dichiarazione.
Quale la ratio teologica che è alla base di questa dichiarazione di Pio IX e rinnovata da Francesco? Si direbbe che la si debba intendere in analogia a quello che accade con Maria e la sua intitolazione a Madre della Chiesa. Come la maternità divina di Maria si trasfonde alla Chiesa, così la custodia e la protezione che nella loro vita il Bambino Gesù e Maria stessa hanno ricevuto da Giuseppe si trasmette alla Chiesa, che è prolungamento del Corpo di Cristo. Ne è ben cosciente la lettera: «San Giuseppe non può non essere il Custode della Chiesa, perché la Chiesa è il prolungamento del Corpo di Cristo nella storia, e nello stesso tempo nella maternità della Chiesa è adombrata la maternità di Maria. Giuseppe, continuando a proteggere la Chiesa, continua a proteggere il Bambino e sua madre». Così facendo, anche la proclamazione di Giuseppe a patrono della Chiesa contribuisce al radicamento cristologico dell’ecclesiologia.
Il testo della lettera apostolica è piuttosto agile. Molti i riferimenti, come ovvio, ai momenti capitali della presenza di Giuseppe accanto a Gesù e a Maria, per come vengono raccontati dai Vangeli di Matteo e Luca. Il testo si articola attorno ad alcune parole chiave: tenerezza, obbedienza, accoglienza, coraggio, lavoro… Ma ciò su cui vorremmo con maggiore dettaglio fermarci è l’ultima sezione della lettera, che si avvolge attorno ad un’immagine bella ed evocativa, che il papa prende da un romanzo dello scrittore polacco Jan Dobraczyński: Giuseppe “padre nell’ombra”. Nei confronti di Gesù, Giuseppe è come l’ombra del Padre. Lo custodisce, lo protegge, lo fa crescere, rivolge a Gesù il suo affetto e la sua continua attenzione.
A questo punto, il papa dà un’interpretazione originale dell’appellativo “castissimo” riferito a san Giuseppe: appellativo che, come noto, compare nelle acclamazioni con cui solitamente si conclude l’adorazione eucaristica; sebbene sia assente nella liturgia eucaristica, laddove san Giuseppe è piuttosto detto eiusdem Virginis Sponsi (così nel Canone Romano, al genitivo retto da memoriam recolentes). Di primo acchito, il termine potrà evocare un’area semantica che è quella attinente alla sfera della sessualità, in questo caso in rapporto a Maria; ma il papa propone un’interpretazione più vasta. L’appellativo “castissimo” non viene qui misurato nel rapporto con Maria, quanto piuttosto in relazione alla sua paternità.
Giuseppe è casto, perché introduce il figlio nella vita, lo guida, lo custodisce, ma mai lo possiede affettivamente: «La castità è la libertà dal possesso in tutti gli ambiti della vita […] L’amore che vuole possedere, alla fine diventa sempre pericoloso, imprigiona, soffoca, rende infelici». Dunque egli è castissimo perché sommamente capace di lasciar libero. Giuseppe è modello del padre libero, che lascia liberi. È il padre che riconosce il mistero della vita del figlio e che si fa da parte, lasciando spazio. Perché un padre è «consapevole di completare la propria azione educativa e di vivere pienamente la paternità solo quando si è reso “inutile”, quando vede che il figlio diventa autonomo e cammina da solo sui sentieri della vita».
Queste considerazioni appaiono tanto più attuali in un mondo, che – come da tante parti e in molte occasioni notato – rifiuta fino a farla eclissare la figura paterna. C’è da chiedersi se poi l’odierna crisi della paternità non sia ancora più in profondità crisi della stessa mascolinità. Giuseppe mostra le due colonne di ogni paternità, facendosene modello: passione e libertà. Libertà, come si diceva. Ma essere padre è anche un fatto di passione e di cura, di protezione e di zelo; come direbbe san Paolo: «Potreste avere anche diecimila pedagoghi in Cristo, ma non certo molti padri» (1 Cor 4,15). Castità, a ben vedere, sarebbe poca cosa senza passione: castità nella paternità è passione che sa lasciare liberi i figli e sa farsi da parte.