Frédéric Debuyst, il suo Elogio di nuove chiese e qualche aggetto teologico

354 500 Dario Chiapetti
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fredericdi Dario Chiapetti • L’esistenza divina, a motivo della sua trinitarietà e simbolicità, è una esistenza-in, ad-intra così come ad-extra. È per tale principio che, sul piano epistemologico, le tematiche teologiche scaturenti da un particolare-incarnato, denso di concretezza – proprio esse – rivelano il volto dell’universale, dell’Uno, di Dio. La comunità monastica di Bose è attenta a questo principio teologico e, in particolare, pone attenzione al particolare ambito di riflessione concernente il legame profondo tra architettura (religiosa e non) e teologia. Ancor di più, l’attenzione è rivolta al rapporto tra architettura e teologia in atto: il sacramento e la liturgia. Ma potremmo spingerci ancora oltre, dicendo che lo sguardo è rivolto alla, sic et simpliciter, teologia in atto: cioè, alla fede vissuta, confessata e celebrata, ossia, al sacramento e alla liturgia, evento in cui architetture, riti, persone – divine e umane -, cose, ecc., intervengono e si costituiscono nella reciprocità e nella perichoresis secondo quel tropos agapico d’esistenza di Dio Trinità, rivelando così proletticamente e profeticamente il regno di Dio come nozze escatologiche.

Se non si può quindi considerare Dio al di fuori del sacramento, non si può considerare il sacramento al di fuori del rito, della liturgia: questa è la frontiera della sacramentaria che molti pensatori – in modo particolare gli orientali come ad esempio Alexander Schmemann (1921-1983) – hanno messo in luce per superare un certo orizzonte di comprensione sostanzialistico-intellettualistico di derivazione scolastico-aristotelica (che pur ha offerto i suoi preziosi contributi) nella direzione di un orizzonte decisamente patristico-personalista. Ma se è vero ciò, non si può nemmeno – questa è la mia personale convinzione – considerare il rito al di fuori dell’elemento “architettura”. Se mi è concessa una piccola nota personale, è proprio dall’esperienza del fare architetture – pensiero, materia e vita – che sono stato condotto, per mezzo dell’esperienza della leit-ūrgía e del mysterion, come scendendo, giù giù, fino ai plinti di fondazione, alla valenza – e questo è proprio di ogni battezzato – dell’orizzonte teologico-trinitario di comprensione di ogni realtà spazio-temporale, il cui terreno d’appoggio, a sua volta – e ciò è importante -, è l’ontologia.

È in tale orizzonte ermeneutico che ho attenzionato, letto e apprezzato Elogio di nuove chiese. Una libera sequenza di incontri e di luoghi significativi rivisitati (Qiqajon, 2018, 194 pp.). Esso è un omaggio alla figura di Frédéric Debuyst (Wemmel 1922 – Ottignies 2017), monaco benedettino, fondatore e primo priore del monastero di Clerlande in Belgio, nonché autore di vari saggi, e consiste nella raccolta di vari interventi, lettere e pensieri autobiografici di Debuyst in cui emerge la sua esperienza, potremmo dire, spirituale (e quindi comunionale) dello spazio, sia della natura che dell’architettura che della vita che della vita monastica.

Debuyst visse appieno l’esperienza di rinnovamento della vita monastica e, in particolare, tenendo sempre a mente l’importanza – come scrive il monaco di Bose Goffredo Boselli nella Prefazione – proprio, come si è detto, del luogo e degli spazi. La valenza spirituale insita in tale attenzione è rivelatrice, a ben vedere, di una concezione “sacramentale” della realtà, ossia, del suo statuto ontologico consistente nell’unitività divino-umana. Tale comprensione conduce poi, non a comprensioni della realtà di tipo panteiste, bensì a auto-rappresentazioni che si incentrano piuttosto sull’iconocità della “familiarità”, della – per così dire – “luoghicità” di incontro comunionale tra alterità e soggetto (non personale) che inter-viene esso stesso in tale evento di incontro.

Tale carattere “familiare” della realtà, dello spazio in generale e dello spazio “religioso” in particolare (di un monastero così come di una chiesa), è ciò che è attestato come fondativo della vita di fede-sacramentale da più parti. Innanzitutto, Debuyst ricorda la rivelazione scritturistica a proposito del rito-sacramento vissuto da Gesù nella “camera alta” con i suoi discepoli durante l’ultima “cena” (cf. 53-54); poi, le prime testimonianze di chiese pensate come “casa-chiesa” come quella di Dura Europos in Siria (cf. 55-56); e, infine, le testimonianze provenienti dal rinnovamento liturgico-architettonico che ha informato anche la riflessione del Concilio Ecumenico Vaticano II, così come è nel caso di Romano Guardini e la sua esperienza pastorale con gli studenti al castello di Rothenfels-am-Main, di Rudolf Schwartz con la chiesa di Sankt Fronleichnam ad Aquisgrana (1930), di Fritz Metzger con Sankt Karl a Lucerna (1934), del grande Le Corbusier con la cappella di Notre-Dame-du-Haut a Ronchamp in Francia (1955), di Emil Steffan con Sankt Laurentius a Monaco-Gern (1956), e lo stesso “monastero-casa” di Clerlande pensato dallo stesso Debuyst con l’aiuto dell’architetto Jean Cosse.

Due aspetti sono valorizzati nell’esperienza spirituale-spaziale del monaco benedettino e ciò, in quanto, vengono a valorizzarsi reciprocamente. Gli abitanti: l’assemblea vivente dei cristiani, grembo vivente – in forza del loro essere costituiti comunione – di tutta la materia (architettura). E il genius loci: la vocazione-potenzialità di un determinato luogo di dire Dio, di dire tale comunione familiare, e ciò sia per proprietà naturali – l’attenzione al paesaggio ricopre un ruolo centrale, innanzitutto esistenzialmente e spiritualmente parlando, in Debuyst – che, in massimo grado, in virtù del suo essere abitazione-di e abitato-da una comunione di persone. È ciò che viene mostrato nel caso delle chiese di terra e i “santos” del Nuovo Messico, l’Università Saint Thomas di Houston con la cappella Rothko (1971), della chiesa di Saint-François di Jean Cosse (1983) e nella cappella di Notre-Dame-de-l’Espérance di Baudouin Libbracht e Jean-Claude Bodeux (2005) a Louvain-la-Neuve, in Belgio.

Spazio e comunione personale si costituiscono a vicenda. In ciò è consistita l’«iniziazione personale» di Debuyst, avvenuta con l’incontro con comunità monastiche – come quella dell’abbazia di Saint-André a Bruge, in Belgio e progettata da Marc Dessovage (1961) – numerosi architetti – gli amici, tra i quali Jean e Florance Cosse, Glauco Gresleri, Patrick Quinn, Ottokar Uhl, e quelli con i quali è venuto in qualche modo in contatto, come i “mostri sacri” Louis Kahn, Alvar Aalto, Peter Zumptor – personalità varie della vita ecclesiastica, confratelli, parenti e così via.

La grande eredità di Frédéric Debuyst che il presente testo ci presenta è di un certo interesse. Il movimento del suo percorso concettuale-spirituale va non da una teologia intellettualista all’applicazione in forme (architettura) ma dall’esperienza (architettura, creaturale come degli uomini) – già teologica in sé! – alla teologia agapica. Spazi e vita si costituiscono esperienza spirituale-comunionale in quanto rivelano la sacramentalità dell’essere e quale ambiente familiare da abitare e, (solo) così, costituiscono il pensiero, un pensiero materico, che abita la costruzione, che abita l’abitare.

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Dario Chiapetti

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