La teologia di Dante in un trittico del cardinale Ravasi

340 148 Andrea Drigani
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di Andrea Drigani · «A l’etterno dal tempo»: con questo verso della Divina Commedia (Par XXXI,38) ha preso le mosse la lectio del cardinale Gianfranco Ravasi sulla teologia di Dante, tenutasi venerdì 28 maggio a Firenze nella Basilica di Santa Croce.

Il cardinale ha esordito ricordando, cioè riportando al cuore, che è lo stesso Dante a ritenere la sua opera di natura teologica, tanto da definirla il «poema sacro al quale ho posto mano e cielo e terra» (Par XXV,1-2). Ravasi ha quindi osservato come la conoscenza della teologia dantesca non è facile, ma richiede un itinerario, un viaggio, una scalata, che in particolare verso la fine può essere faticosa.

Il cardinale ha proposto un ideale trittico per aiutare la comprensione di Dante Poeta-Teologo e Teologo-Poeta. Il primo quadro del trittico è Dante credente e uomo di chiesa, il secondo riguarda l’essenza della teologia dantesca, il terzo la riflessione sulle virtù teologali, in special modo sulla fede, così come si trova nel Canto XXIV del Paradiso.

Nel primo quadro si possono collocare l’Enciclica «In praeclara summorum», del 1921, di Benedetto XV, la Lettera Apostolica «Altissimi cantus», del 1965, di San Paolo VI e la Lettera Apostolica «Candor lucis aeternae» di Francesco. San Paolo VI ha osservato che la voce di Dante si levò, in modo sferzante e severo, contro il comportamento degli ecclesiastici, anche papi, ma tutto ciò non ha mai scosso la sua fede cattolica e la sua appartenenza alla Chiesa.

Il secondo quadro riguarda l’essenza della teologia dantesca che si può compendiare in quella parola «Trasumanar» (Par I, 70), indicante il cammino dell’uomo verso l’Oltre e verso l’Altro, come pure la condiscendenza (synkatabasis) di Dio verso gli uomini, sovente richiamata da San Giovanni Crisostomo. L’essenza della teologia di Dante, ha osservato Ravasi, coincide con l’essenza del Cristianesimo, cioè l’Incarnazione, dove l’eternità entra nel tempo, la realtà viene trasformata ma conservata, dove nella visione della Trinità «mi parve pinta la nostra effige» (Par XXXIII, 131). Il cardinale ha quindi rilevato che la teofania ci precede ed eccede, rammentando le parole di Manfredi: «Orribil furon li peccati miei: ma la bontà infinita ha sì gran braccia, che prende ciò che si rivolge a lei» (Purg III,121-123).

Il terzo quadro del trittico s’incentra nel Canto XXIV del Paradiso ove Dante dinanzi ad un «sodalizio eletto» (i santi del Paradiso), è sottoposto ad un esame di teologia, scienza e fede, da parte di un esaminatore speciale: l’apostolo San Pietro. Si tratta di un esame in forma dialogica con cinque domande e cinque risposte.

Alla prima domanda «fede che è», Dante risponde con la Lettera agli Ebrei: «Fede è sustanza di cose sperate ed argomento delle non parventi; e questa pare a me sua quidditate». La seconda domanda concerne gli «argomenti», e la risposta è che dalla fede si debbono trarre gli argomenti (sillogizzare), poiché la ragione non si oppone alla fede. La terza domanda riguarda il fondamento della fede e la risposta la indica nella parola di Dio, nell’Antico e Nuovo Testamento («in su le vecchie e ‘n su le nuove cuoia»). La quarta domanda attiene alla prova della fede che Dante dice di basarsi sui miracoli. La quinta domanda è sulla veridicità dei miracoli alla quale Dante fa presente come il più grande miracolo è stato quello della conversione al cristianesimo dei pagani ad opera di uomini, come i discepoli, pieni di limiti e di difetti, che senza lo Spirito Santo non avrebbero potuto fare nulla.

Dante proclama, al termine dell’esame, la sua professione di fede: «Io credo in uno Dio solo ed eterno, che tutto ‘l ciel muove, non moto, con amore e con desio» . Il desiderio – ha rammentato il cardinale Ravasi – nel suo significato etimologico latino de sidus, vuol dire mancanza di stelle, cioè avvertire la mancanza di stelle, proprio quelle stelle che concludono tutte e tre le cantiche del «poema sacro».

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