Il denaro di Cesare e il regno di Dio

300 294 Stefano Tarocchi
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di Stefano Tarocchi · Il testo di Marco del celebre insegnamento sul tributo a Cesare (Mc 12,14 e paralleli)1, ambientato nel tempio di Gerusalemme, è centrale all’interno della triplice tradizione sinottica.

Infatti, il vangelo di Luca si è riallacciato a quello di Marco, dopo il racconto dell’avvicinamento a Gerusalemme (Lc 19,28-40). Segue infatti il suo modello nelle pericopi precedenti e successive al passo qui considerato. Nulla lascia trasparire, sia nel contenuto che nelle formulazioni, la presenza di un’altra fonte. Le “concordanze minori” fra Luca e Matteo sono minime.

Qualcuno ha inviato a Gesù farisei ed erodiani per metterlo alla prova. Di farisei ed erodiani si è già parlato in Mc 3,6, ancora in Galilea, dopo la guarigione dell’uomo dalla mano paralizzata: «i farisei uscirono subito con gli erodiani e tennero consiglio contro di lui per farlo morire».

È interessante notare come, nei diversi racconti sia differente l’introduzione all’episodio. Così scrive Marco: «mandarono da lui alcuni farisei ed erodiani, per coglierlo in fallo nel discorso». Dal canto suo Matteo scrive: «i farisei se ne andarono e tennero consiglio per vedere come coglierlo in fallo nei suoi discorsi. Mandarono dunque da lui i propri discepoli, con gli erodiani» (Mt 22,15-16). Infine, leggiamo in Luca: gli scribi e i sommi sacerdoti «si misero a spiarlo e mandarono informatori, che si fingessero persone giuste, per coglierlo in fallo nel parlare e poi consegnarlo all’autorità e al potere del governatore» (Lc 20,20).

Il solo Marco però fa emergere un’inedita alleanza a Gerusalemme tra farisei ed erodiani (che spariscono però dai racconti paralleli), per mettere alla prova Gesù al fine di coglierlo in fallo e accusarlo. Così nemici e amici dei romani si trovano uniti nell’attacco contro Gesù.

Sicuramente gli erodiani non sono amici di Roma ma si alleano all’altro potentato religioso e politico, quello dei farisei («l’autorità e il potere del governatore»). Si genera così un nuovo atto d’accusa, una posizione definita ipocrita.

Gesù è considerato un maestro fidato: dunque quelle direttive che nascono da lui devono essere seguite da coloro che lo ascoltano. Ed è qui il nocciolo della questione.

La questione è più che spinosa: il tributo imperiale è permesso oppure no? Quando il figlio di Erode, Archelao, tetrarca della Giudea viene deposto dai Romani (6 d.C.) e il popolo giudaico perde la sua libertà, un movimento guidato probabilmente da Giuda il Galileo – ce lo dice Flavio Giuseppe – suggerisce che il pagare il tributo ai romani sia un delitto.

Qui la triplice tradizione usa termine diversi per definire questo tributo: Marco, come Matteo, utilizza in greco il termine latino che deriva da census, ossia una tassa sulla testa di ogni persona, che invece Luca nel parallelo chiamerà tributo. Si trattava di una tassa personale molto elevata, uguale per tutti che andava a finire direttamente al fisco imperiale.

I farisei avevano deciso di pagare il tributo, benché chiaramente sgradito.

Qualunque fosse stata la risposta di Gesù sicuramente la risposta affermativa avrebbe in qualche modo toccato la problematica teologica. Tuttavia, soprattutto una risposta negativa avrebbe fatto di lui un rivoltoso.

Ma è questo il fatto: Gesù non si abbassa mai a livello di coloro che lo interrogano nella loro ipocrisia raffinata, come fingere una giustizia solo per metterlo alla prova (Mc 12,15; Mt 22,18; Lc 20,20). Egli escogita una soluzione in qualche modo geniale. Chiede anzitutto la moneta del tributo: un denario, da cui il nostro termine denaro. Com’è noto esso era la paga di una giornata di lavoro.

Gesù evidentemente non ha con sé nessuna moneta, ma ce l’hanno i suoi avversari, che non faticano a produrla all’istante. E poi aggiunge chiedendo qual è l’immagine che si trova sulla moneta: si tratta dell’immagine del l’imperatore regnante: l’imperatore Tiberio Cesare, di cui si dice che fece coniare solamente tre versioni di denario, due delle quali erano molto rare. La terza versione è la moneta d’argento che mostra su un lato il busto dell’imperatore con la scritta del nome e sul lato opposto il titolo pontifex maximus.

Ora è più che evidente che la moneta è simbolo di potere. Quello che non capiscono gli avversari di Gesù, soprattutto nel tempio laddove si svolge il ministero di Gesù a Gerusalemme nei giorni avanti la passione, è una sfida ad un potere che appartiene a un mondo che non è quello di Gesù. Così la vicinanza di Gesù e del potere imperiale non deve trarre in inganno: essa non può suggerire nessuna sorta di compromesso.

Pertanto, Gesù non sceglie né a favore né contro il tributo. Tuttavia, se in qualche modo di fatto riconosce l’autorità imperiale, con le sue stesse parole le oppone con chiarezza l’autorità divina.

Questo fa ricordare le parole del libro di Giobbe, nel descrivere un dominio incontrastato sulle forze della natura, fino a contenere il mare: «chi ha chiuso tra due porte il mare, quando usciva impetuoso dal seno materno, quando io lo vestivo di nubi e lo fasciavo di una nuvola oscura, quando gli ho fissato un limite, e gli ho messo chiavistello e due porte dicendo: “Fin qui giungerai e non oltre e qui s’infrangerà l’orgoglio delle tue onde”?» (Gb 38,8-11). Verrebbe da pensare ai disastri scellerati che portano al clima impazzito…

L’accento è dunque decisamente su Dio: il potere umano è solo transitorio nell’opporsi alla stabilità e alla durata del regno di Dio.

Non si tratta però di una regola pratica che fornisce di colpo una risposta per ogni questione, che può sorgere nel rapporto dell’uomo col potere statale e divino, perennemente attuale. Laddove questo potere vorrebbe entrare in concorrenza con quello divino, la parola di Gesù si volge solamente a favore di Dio.

Dunque, la risposta di Gesù si differenzia dagli zeloti che mirano alla pura e semplice rivolta, come pure da quell’atteggiamento, definito apocalittico, del disinteresse politico oppure della semplice sopportazione di qualcosa che non può esser cambiato.

Gesù, in questo modo, addossa all’uomo la responsabilità di decidere dove è giusto riconoscere la richiesta ragionevole dello stato, oppure far valere l’autorità divina che è stata violata da un’autorità pervasiva.

Ecco perché i diversi racconti dei Vangeli registrano la reazione di meraviglia (Mt 22,22 e Lc 20,20), o di ammirazione (Mc 12,17) degli avversari: questi persistono nella ostilità contro Gesù, ma devono darsi per vinti dopo aver tentato. È forse questo il significato del verbo “tacere” usato nella conclusione di Luca.

1 «Quello che è di Cesare rendetelo a Cesare, e quello che è di Dio, a Dio» (Mc 12,13-17; Mt 22,15-22; Lc 20,20-26)

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Stefano Tarocchi

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