Ultime conversazioni con Benedetto XVI

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1467713364285di Francesco Vermigli • È uno strano libro quello che qui ci proponiamo di presentare: Benedetto XVI, Ultime conversazioni, a cura di Peter Seewald, Milano, Garzanti, 2016, pp. 235. Un libro-intervista a colui che ora ha il titolo di papa emerito, da parte di quello stesso giornalista che aveva rivolto domande a Ratzinger – e composto libri a partire da quei colloqui – quando egli era ancora cardinale prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede o durante il suo pontificato. Uno strano libro, si diceva: perché l’intento è apparentemente ordinario – tutto teso a descrivere la biografia di un uomo di Chiesa asceso al soglio di Pietro – ma la vita di Benedetto XVI che Seewald ci propone, ha un punto di vista speciale e il tratto è singolare.

La postazione da cui la biografia di Ratzinger viene guardata sono gli accadimenti ultimi della sua vita ecclesiale. Vale a dire che tutto il materiale raccolto da Seewald, tutto l’intrecciarsi delle domande e delle risposte, tutto il colloquio – ora stringente e cadenzato, ora più disteso e lento – ha la sua origine e il suo punto di partenza in quell’11 febbraio 2013, in quella sala del Concistoro, in quella dichiarazione redatta in latino, che – come dirà Ratzinger nel corso dell’intervista – ha scelto perché «è una lingua che conosco così bene da poter scrivere in modo decoroso. Avrei potuto scriverlo [il testo] anche in italiano, ma c’era il pericolo che facessi qualche errore» (p. 33). La biografia che viene ricostruita a partire dalle risposte di Benedetto XVI è vista, si direbbe, “dalla fine” e necessariamente anche la struttura del libro ne risente: la prima parte è infatti intitolata alle “Campane di Roma” e traccia la vita del protagonista, dalla decisione della rinuncia al pontificato fino alla sua vita nel Mater Ecclesiae; dove si è ritirato dopo il conclave, nel quale è stato eletto il suo successore.

Ma la conseguenza più apprezzabile della scelta di iniziare dalla fine è un’altra: è quel tono pacato con cui Ratzinger guarda alla propria vita passata. I giorni vissuti in quella sorta di romitorio tra i Giardini Vaticani diventano il contesto esistenziale a partire dal quale le considerazioni sul proprio passato si fanno distese e calme. La conseguenza più percepibile è in altri termini quell’atmosfera rarefatta e distaccata, in cui gli anni della giovinezza e della maturità ecclesiale sono guardati con occhi benevoli, ironici – nei propri e negli altrui confronti – e rasserenati. Certo non mancano domande che toccano i momenti più difficili della sua vita di prete, di professore, di vescovo, di cardinale prefetto, di papa: ma l’impressione che si prende è quella di trovarsi davanti ad una persona pacificata, che non nasconde i giudizi sulla teologia cattolica e sulla Chiesa, ma sempre sfumandoli. Solo per fare un esempio, pensa che la “teologia politica” di Metz si sia mostrata come non del tutto integrabile nella Weltanschauung cattolica; ma apprezza il fatto che ancora siano stretti da autentica amicizia. Oppure, del pensiero di Rahner riconosce il significato che ha rivestito a cavallo del Vaticano II e ricorda la loro collaborazione all’assise conciliare; ma non nasconde la distanza di impianto complessivo della sua teologia da quella del gesuita, distanza che sarebbe poi emersa nel corso del tempo.

Da un lato difende con una certa decisione il proprio operato; respingendo osservazioni critiche provenienti dall’opinione pubblica, che percepisce viziate da una deformazione dei fatti: si sofferma sulle accuse – che ritiene pretestuose – per quanto riguarda la correzione – nella forma straordinaria del rito romano – del testo della preghiera che il venerdì santo la Chiesa rivolge per gli ebrei; e ricorda le modifiche giuridiche per i casi di abusi sessuali sui minori, a fronte di un diritto canonico precedente che pareva inadatto a perseguire i colpevoli. Dall’altro non cela in alcun modo i propri limiti nell’ambito del governo della Chiesa; eredità, come si direbbe di una formazione accademica rigorosa, ma prevalente nel suo profilo biografico.

In questo contesto specifico, si inseriscono anche i riferimenti al successore, puntuali e precisi. Del successore apprezza la capacità di interloquire con le persone, il tono accorato e partecipe, la testimonianza di fede orante e di spiritualità radicale. Ma, nel successore saluta soprattutto la capacità di vedere i problemi della Chiesa e di affrontarli con decisione; ai suoi occhi, frutto questo, invece, dell’esperienza come provinciale dei gesuiti argentini prima e come arcivescovo di Buenos Aires poi.

Nelle pagine conclusive del libro, Seewald pone la domanda e trascrive la risposta di Benedetto XVI: «“Cosa ci sarà scritto sulla sua lapide?” “Direi niente! Solo il nome”» (p. 225). Cosa resterà del nome di questo papa potrà dircelo solo il futuro. Alle sfiancanti discussioni e alle accese diatribe del nostro tempo su chi sia stato Ratzinger, risponderanno un giorno – se così possiamo dire – i lunghi silenzi dei Giardini Vaticani. Risponderanno quelle campane di Roma, che salutarono l’elicottero pontificio diretto a Castel Gandolfo il pomeriggio del 28 febbraio 2013, giorno della fine del suo pontificato.

 

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Francesco Vermigli

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