Un ecologismo umanistico

300 197 Alessandro Clemenzia
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image_previewdi Alessandro Clemenzia • «Come l’ecologia integrale mette in evidenza, gli esseri umani sono profondamente legati gli uni agli altri e al creato nella sua interezza. Quando maltrattiamo la natura, maltrattiamo anche gli esseri umani». Queste parole sono state pronunciate da Papa Francesco nel suo messaggio in occasione della giornata mondiale di preghiera per la cura del creato, celebrata lo scorso 1 settembre.

Dei numerosi spunti che possono essere rintracciati in questo discorso, ciò che vorrei qui mettere in luce è, non soltanto la centralità dell’uomo sul creato, ma soprattutto la centralità di Dio in una visione chiaramente antropologica della creazione. Ed è proprio all’interno di questa logica che si è collocata l’omelia di Padre Cantalamessa, predicatore della casa pontificia, nella liturgia dei vespri in quella medesima occasione nella Basilica di San Pietro.

Disprezzare il creato significa affermare la perdita, da parte dell’uomo, della sua relazione con Dio, e dunque della sua identità di figlio. Cantalamessa introduce la sua riflessione citando un discorso di San Pietro Crisologo: «O uomo, perché hai di te un concetto così basso quando sei stato tanto prezioso per Dio? Perché mai, tu che sei così onorato da Dio, ti spogli irragionevolmente del tuo onore? Perché indaghi da che cosa sei stato tratto e non ricerchi per qual fine sei stato creato?». Da queste parole emerge il desiderio, già nel V secolo, di affermare la sovranità dell’uomo su tutta la creazione; sovranità che trova ragione in quella creazione a immagine e somiglianza di Dio. In altre parole, la centralità dell’uomo rispetto a tutto il resto della creazione è data dall’essere immagine del Creatore.

Ma cosa significa per l’uomo, e di conseguenza per tutto il creato, vivere di questo essere a immagine di un Altro? Spiega il predicatore: «L’uomo è creato a immagine di Dio, nel senso che partecipa all’intima essenza di Dio che è di essere relazione d’amore tra Padre, Figlio e Spirito Santo. […] Esse non hanno una relazione l’una con l’altra, ma sono quella relazione». L’elemento relazionale, dunque, è ciò che lega il polo teologico a quello antropologico. Conservando sempre una incolmabile distinzione essenziale tra Dio e uomo, Cantalamessa afferma che, seppure ci sia «un fossato ontologico tra Dio e la creatura umana; tuttavia, per grazia (mai dimenticare questa precisazione!), questo fossato è colmato, così che esso è meno profondo di quello esistente tra l’uomo e il resto del creato».

Non si tratta di un mero trionfalismo antropologico sulla creazione: «La sovranità dell’uomo sul cosmo non è dunque trionfalismo di specie, ma assunzione di responsabilità verso i deboli, i poveri, gli indifesi». Questa dimensione comunionale e relazionale dell’uomo sin dalla sua creazione fa sì che un’esistenza chiusa agli altri, e cioè all’insegna di ogni forma, piccola o grande, d’egoismo da parte di qualsiasi persona altro non sia che un vivere in modo incompleto la propria umanità.

Tale riflessione antropologica trova la sua fondatezza argomentativa e la condizione di possibilità logica non soltanto nella creazione, ma anche nell’incarnazione: «Solo la venuta di Cristo, tuttavia, ha rivelato il senso pieno dell’essere a immagine di Dio. Egli è, per eccellenza, “l’immagine di Dio invisibile” (Col 1, 15)». È come se dalla creazione e dall’incarnazione la stessa realtà creata fosse impregnata di Dio: mentre nel primo evento Dio, dall’in sé, fa scaturire il suo altro; nel secondo, Dio assume, fa suo questo altro, si fa l’altro.

L’incarnazione tuttavia, ecco lo snodo centrale della riflessione di Cantalamessa, «non dice soltanto “che Dio si è fatto uomo”, ma anche “che uomo si è fatto Dio”: cioè, che tipo di uomo ha scelto di essere: non ricco e potente, ma povero, debole e indifeso. Uomo e basta!». E conclude: «Il modo dell’incarnazione non è meno importante del fatto».

Dal modo dell’incarnazione si comprende ancora di più la profondità del povero, del debole e dell’indifeso, e questo deve portare il cristiano di ogni tempo a essere di essi la voce; e ciò vale anche per il creato: «Il compito primario delle creature nei confronti del creato è di prestare a esso la sua voce. “I cieli e la terra — dice un salmo — sono pieni della tua gloria” (Salmo 148, 13; Is 6, 3). Ne sono, per così dire, gravidi. Ma non possono da soli “sgravarsene”. E queste “levatrici” della gloria di Dio dobbiamo essere noi, creature fatte a immagine di Dio».

Non siamo davanti a un discorso moralistico che richiama l’attenzione del credente sull’importanza del rispetto quotidiano della natura, ma a un recupero di un “ecologismo umanistico”: «un ecologismo, cioè, che non è fine a se stesso, ma in funzione dell’uomo, non solo, naturalmente, dell’uomo di oggi, ma anche di quello del futuro». Un ecologismo, in altre parole, che, a partire dalla creazione, recupera la grandezza dell’uomo, e, affermando la grandezza dell’uomo, diventa simultaneamente (e ontologicamente, in Cristo) espressione della grandezza di Dio.

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