La nuova Gerusalemme (Ap 21,1-22,15) 

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di Stefano Tarocchi · Il libro dell’Apocalisse di Giovanni, nel suo epilogo, si apre con il grande affresco che descrive la creazione nuova, al cui centro c’è la città santa, la nuova Gerusalemme, destinata ad assumere il ruolo di sposa del Cristo: «e vidi un cielo nuovo e una terra nuova: il cielo e la terra di prima, infatti, erano scomparsi e il mare non c’era più. E vidi anche la città santa, la Gerusalemme nuova, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo» (Ap 21,1-2).  

L’immagine si fa particolarmente forte, quando la voce che arriva dal trono di Dio così dice: «ecco la tenda di Dio con gli uomini! Egli abiterà con loro ed essi saranno suoi popoli ed egli sarà il Dio con loro, il loro Dio. E asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non vi sarà più la morte né lutto né lamento né affanno, perché le cose di prima sono passate» (Ap 21,3-4). 

È proprio la città di Gerusalemme che vorrei parlasse attraverso le parole eloquenti e tuttavia nascoste del libro dell’Apocalisse, e che si svelasse a noi attraverso la complessa simbologia che caratterizza il libro. 

E a questo punto che si svela il vero volto di Gerusalemme, la città-sposa del Cristo agnello, la donna-città, come la chiama lo stesso libro, che poi la descrive con cura, nei dettagli della sua perfezione: «poi venne uno dei sette angeli, che hanno le sette coppe piene degli ultimi sette flagelli, e mi parlò: «Vieni, ti mostrerò la promessa sposa, la sposa dell’Agnello». L’angelo mi trasportò in spirito su di un monte grande e alto, e mi mostrò la città santa, Gerusalemme, che scende dal cielo, da Dio, risplendente della gloria di Dio. Il suo splendore è simile a quello di una gemma preziosissima, come pietra di diaspro cristallino. È cinta da grandi e alte mura con dodici porte: sopra queste porte stanno dodici angeli e nomi scritti, i nomi delle dodici tribù dei figli d’Israele. A oriente tre porte, a settentrione tre porte, a mezzogiorno tre porte e a occidente tre porte. Le mura della città poggiano su dodici basamenti, sopra i quali sono i dodici nomi dei dodici apostoli dell’Agnello. Colui che mi parlava aveva come misura una canna d’oro per misurare la città, le sue porte e le sue mura. La città è a forma di quadrato: la sua lunghezza è uguale alla larghezza. L’angelo misurò la città con la canna: sono dodicimila stadi; la lunghezza, la larghezza e l’altezza sono uguali» (Ap 21,9-16). 

Dopo la lunga descrizione della città Santa nei dettagli dal ricco e profondo simbolismo, emerge la sua caratteristica principale: nella città Santa, nella nuova Gerusalemme, non c’è il tempio che connotava la Gerusalemme della storia.  

Lo stesso signore e l’agnello, il Cristo, sono il suo tempio: «in essa non vidi alcun tempio: il Signore Dio, l’Onnipotente, e l’Agnello sono il suo tempio. La città non ha bisogno della luce del sole, né della luce della luna: la gloria di Dio la illumina e la sua lampada è l’Agnello. Le nazioni cammineranno alla sua luce, e i re della terra a lei porteranno il loro splendore. Le sue porte non si chiuderanno mai durante il giorno, perché non vi sarà più notte» (Ap 21,22-25). 

Nella città non c’è più posto per gli orrori né per tutte le azioni che vanno contro la parola di Dio; nella Gerusalemme nuova possono entrare solo coloro il cui nome è scritto nel libro della vita dell’agnello: «non entrerà in essa nulla d’impuro, né chi commette orrori o falsità, ma solo quelli che sono scritti nel libro della vita dell’Agnello» (Ap 21,27).  

Lo scritto di Giovanni ha parlato di questo elemento anche nella lettera alla chiesa di Sardi, la prima del settenario di lettere indirizzato alle sette chiese: «il vincitore sarà vestito di bianche vesti; non cancellerò il suo nome dal libro della vita, ma lo riconoscerò davanti al Padre mio e davanti ai suoi angeli (Ap 3,5).  

All’opposto, però ci sono coloro che, al posto di Dio, adorano la bestia, «il cui nome non è scritto nel libro della vita dell’Agnello, immolato fin dalla fondazione del mondo» (Ap 13,8). La bestia è emanazione del grande drago rosso che fa guerra alla donna «vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e, sul capo, una corona di dodici stelle», apparsa come segno grande nel cielo (Ap 12,1). Un duplice filo percorre la storia, che lega i seguaci di Dio e li distingue dai seguaci della sua opposizione, «gli abitanti della terra il cui nome non è scritto nel libro della vita fino dalla fondazione del mondo» (Ap 17,8). 

Un altro dettaglio fondamentale vieni descritto nel lungo affresco dei capitoli finali del libro della rivelazione di Giovanni. Dal trono di Dio e dell’agnello esce un altro elemento straordinario: «un fiume di acqua viva, limpido come cristallo, che scaturiva dal trono di Dio e dell’Agnello. In mezzo alla piazza della città, e da una parte e dall’altra del fiume, si trova un albero di vita che dà frutti dodici volte all’anno, portando frutto ogni mese; le foglie dell’albero servono a guarire le nazioni. E non vi sarà più maledizione. Nella città vi sarà il trono di Dio e dell’Agnello: i suoi servi lo adoreranno; vedranno il suo volto e porteranno il suo nome sulla fronte» (Ap 22,1-4). 

Il panorama descritto si arricchisce di un altro elemento importante, riguardo a Gerusalemme. Nella creazione nuova, di cui essa Gerusalemme parte, non c’è più la tenebra né esiste la necessità di illuminare alcunché, perché il Signore stesso si incarica di illuminare i suoi eletti «non vi sarà più notte, e non avranno più bisogno di luce di lampada né di luce di sole, perché il Signore Dio li illuminerà». Così gli eletti di Dio «regneranno nei secoli dei secoli» (Ap 22,5). 

A questo punto è l’Agnello stesso che prende la parola nel rivelarsi come colui che viene a breve, e che lascia come impegno la custodia delle parole profetiche del suo libro, del libro della sua rivelazione: «Ecco, io vengo presto. Beato chi custodisce le parole profetiche di questo libro» (Ap 22,7). Idealmente la fine del libro si congiunge al suo principio, dove si chiama «beato chi legge e beati coloro che ascoltano le parole di questa profezia e custodiscono le cose che vi sono scritte» (Ap 1,3). 

A questo punto è il Cristo che riprende ancora la parola per esprimere il suo potere sulla storia, lui principio e fine di ogni cosa: «Ecco, io vengo presto e ho con me il mio salario [lett.: “la mia ricompensa”] per rendere a ciascuno secondo le sue opere.  Io sono l’Alfa e l’Omega, il Primo e l’Ultimo, il Principio e la Fine» (Ap 22,12-13). E poi continua: «beati coloro che lavano le loro vesti per avere diritto all’albero della vita e, attraverso le porte, entrare nella città» (Ap 22,14). E di questo lavare la veste si è già sentito: «questi, che sono vestiti di bianco, chi sono e da dove vengono?». Gli risposi: «Signore mio, tu lo sai». E lui: «Sono quelli che vengono dalla grande tribolazione e che hanno lavato le loro vesti, rendendole candide nel sangue dell’Agnello» (Ap 7,13-14)

Ma torniamo ancora alle parole di Gesù: è lui che ha inviato il suo messaggero per testimoniare il suo disegno sulle vicende umane: «io, Gesù, ho mandato il mio angelo per testimoniare a voi queste cose riguardo alle Chiese. Io sono la radice e la stirpe di Davide, la stella radiosa del mattino» (Ap 22,16) 

Nell’oscurità delle vicende quotidiane che i discepoli del Vangelo attraversano in ogni tempo, compreso il nostro, risuona ancora stabile e forte il grido dello Spirito divina e della città-sposa, rafforzato dalle parole che confermano l’annuncio di questa profezia: «lo Spirito e la sposa dicono: «Vieni!». E chi ascolta, ripeta: «Vieni!». Chi ha sete, venga; chi vuole, prenda gratuitamente l’acqua della vita» (Ap 22,17). 

In quest’ultimo passaggio si compie la promessa divina che diventa anche l’attesa, e nell’attesa la preghiera: «Vieni, Signore Gesù» (Ap 22,20). È il celebre grido in lingua aramaica maranà thà, che troviamo anche in Paolo, in due varianti. Esso può essere tradotto «il Signore viene» oppure, appunto, come invocazione accorata: «Vieni, Signore» (cf. 2 Cor 16,22). 

Per la nostra cultura sembra difficile da afferrare il senso di una città come Gerusalemme, nel modo in cui la descrive il libro dell’Apocalisse, visto che siamo abituati a parlarne attraverso le vicende che ne caratterizzano la sua ricchissima e complessa storia, che si rivela a noi con tutte le sue contraddizioni passate e presenti.  

Se però facciamo lo sforzo di entrare dentro la simbologia del libro – l’Apocalisse, infatti, si esprime attraverso dei simboli non semplici, che vanno decifrati accuratamente, con infinita pazienza e senza cedere al rischio di chiudere il libro – riusciamo a comprendere un messaggio di una attualità sconcertante. Possiamo riassumerlo così: anche nelle vicende più oscure del cammino delle creature umane e di ciascuno di noi, quando e dove la presenza di Dio sembra essersi eclissata, essa è perennemente all’opera in attesa del ritorno del suo Cristo.

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Stefano Tarocchi

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