Il papa e Pascal. L’uomo: il tutto nel frammento

800 458 Francesco Vermigli
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di Francesco Vermigli · La storia più che magistra vitae sembra spesso giocare a dadi. Ma, come ci ha insegnato Einstein, Dio non gioca a dadi con l’Universo. E in analogia anche la storia non gioca a dadi con se stessa; non è preda del caso e, dunque, del caos: perché la storia nasconde disegni inaspettati. Disegni che solo con il tempo puoi vedere. Sarebbe inaspettato se un papa gesuita si rivolgesse con ammirazione e riconoscimento ad un filosofo e teologo e matematico che i seguaci di sant’Ignazio li ebbe in uggia e li ostracizzò, specie nell’ambito della morale e della dottrina della grazia. Questo fatto inatteso e singolare invece è accaduto; dal momento che papa Francesco ha scritto una Lettera apostolica dedicata a Blaise Pascal, nel quarto centenario della sua nascita (19 giugno 1623) e che nel titolo già reca con sé una pista di approfondimento della sua persona e del suo pensiero: Sublimitas et miseria hominis.

E in effetti c’è in questo documento pontificio una parte dedicata proprio alle Provinciali: alle diciotto lettere, cioè, che un fittizio Louis de Montalte scrive ad un amico sui temi della grazia, del libero arbitrio e della predestinazione, in chiave anti-gesuitica. Qui v’è l’unico punto in cui si legge qualcosa di un po’ critico verso Pascal. In cauda venenum, diranno alcuni; visto che siamo nella parte conclusiva della Lettera apostolica. Ma sarebbe un modo un po’ superficiale e soprattutto ingiusto di guardare al testo, che invece si muove dal riconoscimento del tratto geniale di Pascal, tanto nelle scienze della materia, quanto nella sapienza dello spirito. In quell’unico punto un poco critico – a dir la verità – il papa non solo riconosce l’influsso negativo del pensiero giansenista su Pascal circa il tema della predestinazione (e del resto Agostino il grande, nell’ultima fase della sua vita, che ebbe a pensare di diverso?), ma coglie anche quelle pagine un po’ problematiche come occasione per metterci in guardia da ogni tentazione pelagiana, anche ai nostri tempi. Ma andiamo avanti.

In effetti, come si accennava all’inizio, le parole con cui si dà il titolo a questa Lettera apostolica sono un’utile chiave di lettura per il testo. Si dirà che questo vale per ogni documento pontificio – e anche conciliare – ma questo criterio ermeneutico (prendere spunto dalle parole iniziali che danno il titolo ad un documento del papa, per capirne il testo) pare particolarmente efficace in questo caso. Perché le parole iniziali dicono con grande capacità sintetica il modo con cui Pascal guarda all’uomo; cogliendo di quest’uomo l’altezza e la miseria ad un tempo. Anche il più distratto liceale avrà di certo un giorno almeno carpito le parole di un qualsiasi professore di filosofia circa l’ispirazione che ebbe sul pensiero di Pascal quel salmo, che dice quanto sia minuscola la creatura umana e quanto grande essa sia nello stesso tempo: «che cosa è l’uomo perché te ne ricordi e il figlio dell’uomo perché te ne curi? Eppure l’hai fatto poco meno degli angeli, di gloria e di onore lo hai coronato» (Sal 8,5-6). Si tratta di quella ispirazione che si riversa nella bellissima e celeberrima immagine dell’uomo come una canna: «l’uomo non è che una canna, la più debole della natura, ma è una canna che pensa» (Pensieri, 231).

Nel titolo di questo nostro articolo compare però il riferimento ad un’altra immagine, che prendiamo da Balthasar: l’uomo è il tutto che si racchiude in un frammento. Un’immagine che ci pare capace restituire il pensiero di Pascal sull’uomo; un’immagine più evocativa e poetica di quanto sarebbe l’applicazione al pensiero di Pascal dell’alternativa cartesiana tra res cogitans e res extensa. Del resto, chissà cosa avrebbe detto Pascal stesso dell’accostamento del suo nome a Cartesio, lui che ebbe a scrivere: «Non posso perdonarla a Cartesio, il quale in tutta la sua filosofia avrebbe voluto poter fare a meno di Dio, ma non ha potuto evitare di fargli dare un colpetto al mondo per metterlo in moto; dopo di che non sa più che farne di Dio» (Pensieri, 77)? Non è il caso di suscitare reprimende postume da parte di Pascal nei nostri confronti, al solo nome di Cartesio; piuttosto si tratta di ispirarsi a quella celebre immagine di Balthasar per dire che l’uomo è colui che nella sua fragilità e piccolezza è l’unica creatura capace di percepire l’Universo e di pensarlo, l’unica creatura capace di Dio, che giunge a conoscere secondo l’“ordine del cuore”: perché è impossibile credere «se Dio non inclina il cuore» (Pensieri, 412).

Vi è un’ultima considerazione da fare. V’è nel pensiero di Pascal sull’uomo una deriva scivolosa, che un uomo di tutt’altra pasta e di tutt’altra ispirazione ebbe a notare quasi un secolo dopo Pascal. Mi riferisco a quella lenza di François-Marie Arouet, detto Voltaire, che nella 25° delle sue Lettere inglesi segnalò come «lo spirito con cui Pascal ha scritto questi Pensieri fosse di descrivere l’uomo sotto una luce odiosa. Egli si accanisce a dipingerci tutti bricconi e infelici. Scrive contro la natura umana pressappoco come scriveva contro i gesuiti». V’è cioè – nascosta tra le pieghe del pensiero di questo gigante della cultura francese – un senso di pessimismo sull’uomo, un velo di tristezza e di inadeguatezza dell’uomo nei confronti del cosmo. Un senso e un velo che non potevano certo andare a genio all’illuminismo che intende la ragione come ciò che toglie l’uomo dalla condizione di minorità (cf. Kant); mentre è lo stesso senso di pessimismo e velo di tristezza che non potevano che essere agganciati con facilità dall’elitarismo e dalla rigidità purista dei giansenisti.

In fondo, se cammini tra la sublimità e la miseria dell’uomo, la questione è da che parte fai cadere l’accento. E talvolta, come quando si cammina su un crinale di alta montagna, può accadere che si precipiti senza freni da una delle due parti.

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