Le violenze di Palermo e Caivano: non solo un problema culturale

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di Leonardo Salutati · Nella seconda metà di agosto hanno scosso l’opinione pubblica due episodi di violenza sessuale, a opera di gruppi di giovani e adolescenti le cui vittime sono state: in un caso una 19enne a Palermo, nell’altro due bambine di 10 e 12 anni a Caivano nel napoletano. Ennesime vicende che hanno fatto clamore per la giovane età delle vittime e degli autori della violenza, che sembrano cogliere di sorpresa un’opinione pubblica che però ritarda o rifiuta di prendere coscienza di un fenomeno da tempo evidente.

Infatti, già nel 2011 un breve ma denso saggio di psicologia, ad opera di quattro specialisti in psichiatria, psicologia e psicoterapia (vedi), richiamò l’attenzione sulla questione, ormai pervadente, della moderna “ipersessualizzazione”. Il termine nel 2011 era un neologismo specialistico, usato in psicologia per significare una eccessiva esposizione a stimoli di natura sessuale, dovuta alla pervasiva allusione sessuale nei media, dove il corpo è visto sempre più come oggetto sessuale e la pornografia è sempre più facilmente accessibile ed esplorata. Su internet, TV, cellulari, riviste e pubblicità, la sessualità inscenata è trasgressiva, spettacolare, svincolata dal rapporto d’amore, troppo inappropriata per il pubblico dei più vulnerabili e soprattutto dei minori. Una situazione che i moderni media favoriscono con conseguenze gravi e assai diffuse che, tuttavia, gode di un generale “disconoscimento” che giunge persino al tentativo di negarne la rilevanza clinica, sulla quale il saggio sopra richiamato fa luce sottolineando l’evidenza scientifica del problema e la sua consistenza.

Nel 2016, l’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa, farà eco a questo richiamo approvando la Risoluzione 2119 (2016) ed emettendo la Raccomandazione 2092 (2016) agli Stati membri per “La lotta contro l’ipersessualizzazione dei minori”, in quanto si riscontrava che tale fenomeno è talmente diffuso nei media, nelle campagne di marketing e nei programmi televisivi da distorcere nei bambini e nei giovani la percezione della società e di se stessi. Infatti, si riverbera con conseguenze drammatiche sulla loro salute fisica e mentale incidendo, fortemente, sulla loro autostima, sulle relazioni con i coetanei e con le persone in generale e, quindi, sul loro generale benessere.

Tuttavia, ancora prima, nel 2008, nella sua Lettera alla Diocesi e alla Città di Roma, nel riflettere su quella che all’epoca veniva chiamata “emergenza educativa”, sulla linea dei suoi predecessori a cominciare da Leone XIII e su quella dei grandi Santi educatori, uno su tutti S.Giovanni Bosco, Benedetto XVI rilanciava l’allarme sul declino della «speranza cristiana», che rischia di far «ridiventare anche noi, come gli antichi pagani, uomini “senza speranza e senza Dio in questo mondo” (…) da qui nasce la difficoltà forse più profonda per una vera opera educativa», aggravata da «una crisi di fiducia nella vita». Il Papa osservava al riguardo che, a differenza di quanto avviene in campo tecnico o economico, «dove i progressi di oggi possono sommarsi a quelli del passato, nell’ambito della formazione e della crescita morale delle persone non esiste una simile possibilità di accumulazione, perché la libertà dell’uomo è sempre nuova e quindi ciascuna persona e ciascuna generazione deve prendere di nuovo, e in proprio, le sue decisioni». Per cui anche i più grandi valori del passato non possono semplicemente essere ereditati, ma è necessario appropriarsene e rinnovarli anche «attraverso una, spesso sofferta, scelta personale» (vedi).

Di conseguenza sarebbe una ben povera educazione quella che si limitasse a dare delle nozioni e delle informazioni, ma lasciasse da parte la grande domanda riguardo alla verità, soprattutto a quella verità che può essere di guida nella vita e che necessita di testimoni del vero e del bene. Per questo l’educazione non può fare a meno di quell’autorevolezza che la rende credibile e che è frutto di esperienza e competenza, ma si acquista soprattutto con la coerenza della propria vita. A questo proposito, S.Giovanni Bosco, convinto che educare significa aiutare a scoprire le potenzialità di bene e sviluppare le capacità umane e spirituali seminate da Dio nel cuore del giovane, affermava che diventare un buon cristiano conduce a diventare un uomo capace di vivere saggiamente in società, per cui quanti, religiosi e laici, predicano con la parola e con l’esempio il Vangelo, si rendono altamente «benemeriti della stessa civile società e degli Stati, perché promuovono tra i cittadini la moralità, la virtù, il buon ordine; e per tal modo cooperano al benessere morale e materiale del popolo più che non possano fare gli eserciti, le leggi, i tribunali, le prigioni» (G. Bosco, 1887).

Nel terminare la sua riflessione nella Lettera del 2008, Benedetto XVI rivolgeva infine ai suoi interlocutori un invito che mantiene ancora oggi tutta la sua attualità, ovvero quello di «porre in Dio la nostra speranza. Solo Lui è la speranza che resiste a tutte le delusioni; solo il suo amore non può essere distrutto dalla morte; solo la sua giustizia e la sua misericordia possono risanare le ingiustizie e ricompensare le sofferenze subite. La speranza che si rivolge a Dio non è mai speranza solo per me, è sempre anche speranza per gli altri: non ci isola, ma ci rende solidali nel bene, ci stimola ad educarci reciprocamente alla verità e all’amore» (Benedetto XVI, 2008).

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Leonardo Salutati

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