Analisi economica della felicità. Parte 1

370 500 Coscienza Universitaria
  • 0

di Giacomo Funghi · L’analisi economica della felicità nasce in senso stretto nel 1974 quando il professor Robert Easterlin pubblica un articolo evidenziando che all’aumentare del PIL pro capite la felicità individuale diminuiva. Per l’economia mainstream la crescita del PIL era, invece, condizione necessaria e sufficiente per la felicità e il benessere pubblico. Celebre è un discorso di Robert Kennedy in cui disse:

Il PIL misura tutto tranne ciò per cui la vita vale la pena di essere vissuta.”

Questo perché in generale il PIL è un pessimo indicatore del benessere economico, ma è l’unica cosa di cui il mondo si è occupato per molto tempo. Cercherò di dare una panoramica, in due articoli, di quello che la ricerca economica ha prodotto riguardo la felicità partendo dalle considerazioni chiave di Aristotele e continuando con il pensiero economico da Adam Smith fino agli sviluppi più recenti.

Per Aristotele, la felicità è “l’eudaimonia”, ossia la fioritura della persona. La felicità non dipende dal caso, dalla fortuna, già nella parola felicità la radice “fe” nell’indoeuropeo indica la fertilità, fioritura appunto. Cosa diversa è, per esempio, la concezione della “happiness”, dal verbo to happen, accadere, la felicità che accade e basta, per caso e che poi passa.

Per molti secoli l’economia è stata solo una branca della filosofia morale, tanto da essere utilizzata solo come aggettivo: “morale economica”, non economia come soggetti e quando iniziava a diventare una scienza a se stante tra il XVIII e il XIX secolo, ecco che Adam Smith, poco prima che diventasse “il padre” dell’economia moderna, nel 1759, da professore di filosofia morale, pubblicò la “teoria dei sentimenti morali”, un’opera più psico-sociologica che filosofica, in cui scrisse:

Per quanto l’uomo possa essere supposto egoista, vi sono evidentemente alcuni principi nella sua natura che lo inducono a interessarsi alla sorte altrui e gli rendono necessaria l’altrui felicità, sebbene egli non ne ricavi alcunché, eccetto il piacere di constatarla. […] Attraverso l’immaginazione poniamo noi stessi nella sua situazione e diventiamo in qualche misura la stessa persona e così ci formiamo un’idea delle sue sensazioni e anche sentiamo, anche se in misura minore, qualcosa di non dissimile da quello che sente lui.

Per Smith per vivere una vita felice l’uomo doveva esercitare le virtù, come per il pensiero greco, e la più importante di tutte è la benevolence, la benevolenza, che viene esercitata tramite la sympathy, la comunanza dei sentimenti; mentre il più basso degli atteggiamenti dell’uomo è il self-interest, la ricerca dell’interesse privato. Nel 1776 pubblica la sua opera più famosa: La ricchezza delle nazioni che capovolge le precedenti affermazioni.

Non è dalla benevolenza del macellaio, o da quella del birraio o del fornaio che noi ci attendiamo il nostro pranzo, ma dal loro interesse personale. Ci rivolgiamo non al senso di umanità ma al loro interesse, e non parliamo mai loro delle nostre necessità ma dei loro vantaggi.”

Quando cade il sistema feudale nasce il mercato in cui artigiani, operai e mercanti non dipendono più da un padrone e sono quindi liberi e vivono del loro lavoro, ma non hanno bisogno della benevolenza. Il mercato funziona bene se gli individui mettono, invece, al primo posto la ricerca dell’interesse personale, le priorità si ribaltano. Il mercato è governato da una mano invisibile che riordina i bisogni e la produzione delle nazioni che, così, ne accresce la ricchezza tramite la divisone sociale del lavoro (dando così inizio all’alienazione del lavoro). Ciò significa che per vivere una vita felice l’uomo non deve più impegnarsi nell’esercitare le virtù, ma nel ricercare il proprio interesse personale, non c’è bisogno degli altri, la felicità è strettamente individualistica. Involontariamente, e contrariamente a quello che pensava, Smith nella sua opera trasmette il messaggio per cui più ricchi si è e più felici si è.

A rinforzare la nascente teoria economica classica, ma soprattutto quella neoclassica, i primi economisti si lasciarono contaminare da Jeremy Bentham fondatore del pensiero utilitarista. Poggiando le basi nel pensiero edonista Bentham scrisse:

La natura ha posto il genere umano sotto il dominio di due supremi padroni: il dolore e il piacere. Spetta ad essi soltanto indicare quel che dovremmo fare, come anche determinare quel che faremo.”

Fuggire il dolore e massimizzare il piacere, questa è la lezione che gli economisti colgono e incorporano nel descrivere la funzione di domanda nel descrivere il comportamento di un individuo che diventa “massimizzatore della propri utilità”. E così anche per le imprese che massimizzano il profitto e via dicendo. Creando una vera e propria funzione di utilità f(U), economisti e statistici crearono una sofisticatissima descrizione economica del comportamento individuale che oggi chiamiamo microeconomia. Questo significa che parte della tradizione economica ha creato una letteratura e una descrizione matematica e statistica considerando individui che operano nel mercato, gli agenti economici, intrinsecamente egoisti e massimizzatori. In questa dimensione non c’è posto per la responsabilità sociale dell’impresa, non c’è posto neanche il sacrificarsi per un amico, per una persona amata se non per un mero criterio di utilità, per un tornaconto personale. Nasce e si coltiva una cultura e una società dell’idolatria del denaro per generare piacere-felicità e fuggire il dolore.

Ma come ho detto, questa è solo una parte della narrazione economica, John Stuart Mill, considerato l’ultimo dei classici scrisse:

Sono felici, credo, solo quelli che hanno il pensiero fissato su oggetti diversi dalla propria felicità – sulla felicità degli altri, sul progresso dell’umanità, o anche in un’arte o ricerca – perseguendoli non come mezzo ma come ideale fine a se stesso. Mirando così a qualcos’altro, essi trovano la felicità nel loro cammino […] Chiedetevi se siete felici, e cesserete subito di esserlo.”

E riteneva anche che i poveri soffrissero di un’illusione monetaria poiché la felicità dei ricchi è uguale alla felicità dei poveri. Mill rigettava interamente il pensiero utilitarista e riteneva molto importante una particolare forma di impresa, la cooperativa. Con la cooperativa gli operai non erano più soggetti alle forme di schiavitù del capitalista e, trattandosi tra uguali, uniti e corresponsabili portavano avanti l’attività di impresa che risultava addirittura essere più produttiva.

image_pdfimage_print
Author

Coscienza Universitaria

Tutte le storie di: Coscienza Universitaria