di Francesco Vermigli · Il 20 aprile scorso papa Francesco ha incontrato i membri del Pontificio Comitato di Scienze Storiche, nel 70° anniversario dell’istituzione, che avvenne per decisione di papa Pio XII (era il 7 aprile del 1954). Dal discorso rivolto dal papa ai presenti, vogliamo trarre alcune considerazioni più posate.
Il discorso prende occasione dalla ricorrenza dell’anniversario della creazione di tale Comitato, per sviluppare qualche argomentazione sul rapporto che egli vede tra la Chiesa e la ricerca storica. Il papa innanzitutto coglie nella ricerca storica un esempio eminente di quella che chiama diplomazia della cultura; quindi, riconosce nel lavoro paziente dello storico un servizio alla verità; infine, coglie nell’opera storiografica un contributo fondamentale a quella che definisce cultura dell’incontro. Vogliamo soffermarci in particolare sulla seconda di queste tematiche, perché pare foriera di considerazioni di non piccolo momento.
Che significa che lo storico offre un servizio alla verità? Ma ancora prima ci dobbiamo chiedere – novelli Ponzi Pilati – che cosa sia la verità storica. Quest’ultima domanda pare il primo passaggio, decisivo per poter avanzare oltre nel nostro ragionamento. Poi vedremo quale aggancio essa possa avere con la verità cristiana. Intanto, dunque chiediamoci: cos’è la verità storica?
Per rispondere a questa domanda, vogliamo ispirarci ad un grande storico: «“Papà, spiegami a che serve la storia”. Così, pochi anni or sono, un ragazzo che mi è molto vicino, interrogava suo padre, uno storico. Vorrei poter dire che questo libro rappresenta la mia risposta». Sono le parole poste all’inizio di uno dei classici della saggistica del Novecento. Sono le parole di Marc Bloch nella sua Apologia della storia o Mestiere di storico; libro uscito postumo per mano di Lucien Febvre (con il quale aveva fondato i celebri Annales d’histoire économique et sociale), dopo la fucilazione ad opera della Gestapo, ottanta anni fa, il 16 giugno 1944. Facendo leva su un piccolo gioco letterario, lo storico di cui parla è lui stesso e il ragazzo (a lui vicino) non è altro che il proprio figlio. Ci vogliamo ispirare a questa grande figura di storico alsaziano (di quella terra, cioè, dove la cultura francese e quella tedesca si incontrano) di origine ebraica, partigiano contro la barbarie nazista. E ci vogliamo far ispirare da quelle due parole secche e dirette, che compaiono sulla sua lapide nel cimitero di Le Bourg-d’Hem: Dilexit veritatem.
Già, è proprio così: lo storico ama la verità; sennò è un ideologo, sennò è un agitatore e un millantatore. Lo storico ama la verità e si fa fare, si fa condurre dalla verità. Ma – lo ripetiamo – di che verità si tratta? Non è la verità cartesiana chiara e distinta, quella matematica, quella delle scienze esatte. La verità dello storico si fa con il tempo, scandita dalla passione e dall’impegno. Ha un carattere approssimativo, deriva dall’onestà dell’indagine. La verità dello storico non rifugge il soggetto che interpreta, perché – a differenza delle scienze matematiche – non è astratta (ma lo sono davvero anche quelle?), ma parte dal soggetto e raggiunge l’oggetto; ma il soggetto non scompare, resta: solo, egli deve saper accettare i dati che riceve dalle fonti. Il lavoro dello storico è dunque umile, la sua verità non si impone; ha l’unica preoccupazione di apparire ragionevole e fondata (sennò che differenza ci sarebbe tra la ricerca storica e la falsificazione della storia?), ma mai definitiva. Come in un rinnovato supplizio di Tantalo, il servizio dello storico è uno sforzo verso la verità, che egli non potrà mai raggiungere in pienezza.
Dunque, se questa è la verità storica, non apparirà forse distante dalla verità cristiana? Dipende da che immagine abbiamo della verità cristiana. La verità cristiana è consegnata da Gesù agli uomini in una maniera che è definitiva: «Io sono la via, la verità e la vita» (Gv 14,6). Ma altro è che Gesù sia la verità in pienezza – poiché Gesù è il Dio in pienezza, venuto in mezzo al mondo per la nostra salvezza – altro è che l’uomo questa verità in pienezza la possieda. La Chiesa stessa è la «depositaria della verità religiosa», come dice Paolo VI citato da papa Francesco nel discorso da cui abbiamo tratto occasione di riflessione. Ma essere depositaria della verità, non significa possederla in pienezza. Non significa questo, perché la Rivelazione di Gesù non la si possiede come si possiede un oggetto che si può descrivere con esattezza, anche misurandolo. La verità cristiana è la persona di Gesù che ci precede e che ci indica la strada, che traccia un solco, lascia il segno del suo passaggio e invita a percorrere la stessa strada. La verità cristiana è l’inesauribilità della persona di Gesù, sempre più avanti rispetto a noi e alla nostra capacità di abbracciarlo, di com-prenderlo (si comprehendis non est Deus, non è vero Agostino?).
Ecco, in questa inesauribilità della verità che è Gesù, in questa pienezza a cui si tende ma che non riusciamo a raggiungere, pare nascondersi un’inattesa somiglianza tra la verità a cui tende lo storico e la verità cristiana.