Il discorso del papa alla Federazione delle Università Cattoliche

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di Francesco Vermigli · Lo scorso 19 gennaio nella Sala del Concistoro si è tenuto l’incontro di papa Francesco con la delegazione della Federazione Internazionale Università Cattoliche (FIUC), nel centenario della sua fondazione. A causa delle non buone condizioni di salute del papa, l’incontro si è limitato ad un breve saluto; ma – come accade sempre in questi casi – è stato consegnato il testo che era stato preparato per l’occasione. Ed è su questo che intendiamo dire qualcosa: perché gli argomenti trattati dal papa, gli spunti offerti, il modo con cui vengono presentati sembrano davvero indicare una strada per la vita accademica che si ispira alla fede e che nasce da essa.

Dopo aver rapidamente ricordato le tappe della nascita di questa Federazione – la prima associazione nel 1924 sotto Pio XI, appunto cento anni fa; ma anche il decreto della Congregazione dei Seminari e delle Università degli Studi del 1948, sotto Pio XII – papa Francesco si volge ad alcuni aspetti che ritiene fondamentali per la costruzione di una vita accademica di ispirazione cattolica.

Lavorare in rete, innanzitutto: con questa immagine – di per sé abbastanza usuale al mondo accademico, anche laico – il papa intende mostrare che si tratta di una responsabilità ancora più urgente, proprio se la vediamo dal punto di vista di un’Università cattolica. Fare rete significa costruire ponti e creare legami, cercare l’armonia e la concordia; testimonianza di pace e di riconciliazione in un mondo lacerato da mille guerre (la “terza guerra mondiale a pezzi”, formula coniata dal papa e che ricompare anche in questo discorso).

Ora questa prima sollecitazione di Francesco ci introduce ad un problema di cui la teologia sembra aver preso veramente coscienza solo negli ultimi decenni, sulle ceneri della pur grande tradizione manualistica moderna e contemporanea: la necessità di creare ponti e di cercare legami tra le università e tra le varie discipline è un compito impellente non solo perché testimonia e costruisce unità in un mondo di lacerazioni e conflitti, ma anche perché coerente con lo stesso mistero di Dio, che è semplice (cioè, letteralmente, piegato una sola volta). A fronte della parcellizzazione e dell’atomizzazione delle discipline degli ultimi secoli, quello di cui ha bisogno la teologia e ogni accademia è uno sguardo capace di abbracciare ogni ambito e ogni realtà, necessita di una capacità di giudizio che non disdegni alcun ambito; fedele all’antico assioma latino: homo sum, humani nihil a me alienum puto. Vale a dire che è di un’accademia cattolica trattare di tutto, creando sintesi, cercando collegamenti disciplinari, intessendo relazioni tra vari dipartimenti e facendo della ricerca un’opera armonica e completa; perché l’accademia di analisi può anche morire, chiudendosi in se stessa e non dando alcun frutto.

Dal cuore della Chiesa, poi. Qui il riferimento di Francesco è alla Costituzione apostolica sulle Università cattoliche di Giovanni Paolo II, che prende il titolo – come consueto – dalle parole iniziali del documento stesso: Ex corde Ecclesiae (15 agosto 1990). È sorprendente – nota il papa – che il suo predecessore dica che l’Università cattolica nasce non dall’intelletto della Chiesa, ma dal suo cuore. Ma fino ad un certo punto: perché – come nel seguito sottolinea papa Francesco – questo riferimento al cuore della Chiesa come luogo generativo dell’Università cattolica ci induce a sottolineare come la comprensione della realtà sia una questione di affetti e di desideri, non solo di argomenti netti e puliti, per così dire.

In questo passaggio del suo discorso, il papa cita Hannah Arendt e la sua ispirazione agostiniana: laddove il concetto di amore del vescovo di Ippona viene presentato come appetitus, come tensione, cioè, e come desiderio di conoscenza. Aggiungiamo noi le parole di Gregorio Magno secondo cui amor ipse notitia est; secondo cui, cioè, l’amore è fonte di conoscenza: chi ama conosce e chi conosce ama ancora di più ciò che ha conosciuto. Il questo frangente il papa ricorda anche Miguel de Unamuno, nella sua affermazione lapidaria e piena di verità antropologica secondo la quale «il sapere per il sapere: questo è disumano».

Su questo punto vorrei dire un’ultima cosa, con la quale sottolineare quanto distante dovrebbe essere la nostra teologia e la nostra accademia dal “sapere solo per il sapere” cui accenna il papa, citando Unamuno. La teologia e ogni disciplina che venga letta a partire dall’ispirazione di fede, deve infatti parlare alla vita dell’uomo e della Chiesa. Essa nasce dalla contemplazione amante del mistero santo di Dio, ma anche di quello dell’uomo e di quello dell’intero cosmo; in cui il mistero divino si rispecchia e si riverbera. Essa sorge dalla preghiera e dalla conoscenza intima di Dio. In breve, una teologia e una università cattolica che siano all’altezza non soltanto del mondo accademico laico, ma all’altezza dei bisogni dell’umanità e all’altezza del Vangelo deve “sapere di Cristo”. Sapere del resto, si sa, vuol dire assaporare. È di una teologia ed è di un’accademia cattolica sapere, cioè sentire il sapore: di Dio, dell’uomo, del cosmo.

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Francesco Vermigli

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