La personalità giuridica delle prime comunità cristiane organizzate in associazioni autorizzate

810 500 Francesco Romano
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di Francesco Romano · Già dal suo inizio la Chiesa era esteriormente riconoscibile come una comunità. Era fuori discussione che la Chiesa si considerava fondata sulla volontà divina: già per i cristiani delle comunità primitive di Gerusalemme era chiaro che la loro comunità rappresentava una istituzione speciale. Essi si autodefinivano come popolo di Dio e come comunità raccolta davanti a Dio. Anche le singole comunità cristiane erano denominate Chiese, ma ciò non voleva affatto significare che fossero tra loro indipendenti.

Secondo la dottrina di San Paolo ogni singolo cristiano e ogni comunità è un membro o un organo del corpo mistico del Signore. Questo concetto di corporazione non veniva solo inteso in senso teologico, ma significava l’intera Chiesa. Proprio nel modo in cui ogni cristiano deve essere unito a Cristo per diventare membro vivo del corpo mistico, così anche i membri della Chiesa che vivono su questa terra devono essere uniti tra loro. L’elemento essenziale del vincolo dei cristiani con la loro comunità e delle comunità tra loro era la communio, la quale inizialmente rappresentava l’unione dei singoli cristiani con l’Eucaristia e, mediante questa, l’unione con tutti i cristiani. Essa significava una realtà molto efficace, perché i diritti dei singoli di essere membri e i diritti delle comunità ecclesiastiche nel quadro d’assieme del corpus christianorum, stavano o cadevano a seconda che la communio era pienamente valida, limitata o sciolta. Il concetto di corporazione, il quale a questo riguardo aveva anche un significato religioso, acquisito dal simbolismo teologico, formava un punto basilare nello sviluppo del concetto sociale e giuridico di Chiesa e contribuì in maniera decisiva a far entrare il diritto romano in relazione con essa.

Il concetto di corporazione ha certamente avuto il sopravvento in questo periodo, tuttavia a poco a poco, e inizialmente solo in maniera complementare, apparve il concetto di istituzione. Non solamente la comunità, ma anche le istituzioni della comunità vennero comprese nel concetto di Chiesa. Ciò fu messo in evidenza per il fatto che la singola comunità era in grado di disporre di propri mezzi e possedeva in proprio edifici e fondi. Perciò già per Clemente di Alessandria verso il 200 il concetto di ecclesia era ampliato perché non comprendeva solamente la comunità raccolta nel nome di Dio, ma anche l’edificio dove essa poteva riunirsi.

Il concetto di Chiesa però non costituiva soltanto una questione ecclesiastica interna. Le singole comunità già dall’inizio miravano a far valere nel loro mondo sociale la propria e indipendente posizione di diritto. Ciò si può dire già della comunità primitiva in Gerusalemme, la quale deliberatamente si separò dal Tempio e dal popolo ebraico e difese la sua indipendenza anche contro la resistenza che si sollevò nei suoi riguardi. Con la diffusione del cristianesimo ogni comunità cristiana, dapprima solo singolarmente, ma in seguito nei periodi delle persecuzioni anche nel loro insieme, venne a contatto con l’autorità secolare. La questione riguardante la forma con la quale la Chiesa entrò in contatto giuridico con gli organi del diritto statale e con i membri dell’ordinamento sociale ed economico secolare, fu trattata dalla scuola antica, salvo poche eccezioni, nel senso che la Chiesa precostantiniana, né come insieme, né attraverso le singole comunità, era ritenuta secondo il diritto romano una persona giuridica.

Sovente venne avanzata l’ipotesi che le comunità cristiane locali fossero in via di principio società proibite dette collegia illicita, perciò particolarmente esposte ai pericoli nei periodi di persecuzione, oppure che per mancanza di altre possibilità giuridiche, esse costituissero delle fondazioni apparenti sul tipo delle associazioni caritative e funerarie, i così detti collegia tenuiorum sive funeraticia, le quali non richiedevano una particolare approvazione dello Stato.

Sembra dunque certo che le comunità cristiane dell’impero romano, nel caso che circostanze particolari nell’epoca delle persecuzioni non rendessero necessari degli accorgimenti di difesa, si costituivano, in conformità al diritto romano delle associazioni, in organizzazioni religiose. Che ciò fosse possibile anche con l’atteggiamento ostile e negativo dello Stato romano si arguiva dalla applicazione non uniforme della legge o dalla situazione politica.

È certo che le comunità cristiane erano organizzate in associazioni autorizzate e pertanto anche secondo il diritto romano godevano di una personalità giuridica. Esse perciò potevano acquistare anche beni propri che talvolta erano notevoli e svolgere le loro adunanze religiose. Tuttavia non si trattava di una organizzazione generale, ma di un riconoscimento delle singole comunità nel diritto secolare. Che lo Stato romano fosse consapevole di questa situazione e che tale forma di organizzazione fosse comunemente nota, lo sappiamo dalle disposizioni di persecuzione, particolarmente sotto l’impero di Valeriano e di Diocleziano, i quali non soltanto delimitavano l’attività religiosa mediante disposizioni repressive, ma sequestravano anche i beni delle chiese. Ciò si rileva dal contenuto dell’editto di Galerio del 311 e dall’editto di Milano del 313 con il quale veniva tolto il sequestro e ordinata una restitutio in integrum. Inoltre la Chiesa come persona Christianorum fu riconosciuta quale corporazione di diritto pubblico e questo non soltanto la equiparava alle associazioni religiose pubbliche non cristiane, ma le riservava anche una posizione di prestigio come personalità giuridica.

Già le comunità cristiane godevano di personalità giuridica per concludere affari legali, in quanto potevano acquistare, possedere e amministrare, mediante i loro organi, beni mobili e immobili e farli fruttare per l’adempimento dei loro compiti. A questi era connessa anche l’attività della carità sociale, che altrimenti era una questione prevalentemente pubblica. Allo stesso modo i cristiani potevano far valere il loro diritto davanti al tribunale secolare.

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Francesco Romano

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