Una novella sull’umiltà. Cronin insegna

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AJ_CRONINdi Carlo Nardi · Dal mio bailamme ho tirato fuori vari scritti di anni fa. Tra questi è una piccola storia, adatta a fanciulli e non solo, grazie a Archibald Joseph Cronin (1896-1981).

La grazia più grande

Più di 200 anni fa, in una remota campagna dell’Italia meridionale, vivevano due ragazzi che erano compagni inseparabili. Mario, intelligente e sicuro di sé, figlio d’un ricco possidente, era il capo; Anselmo, non molto dotato per lo studio, figlio del ciabattino del paese, era il fedele gregario.

Mentre, gironzolando per la campagna, Mario parlava con serietà del suo avvenire. I suoi genitori, molto religiosi, lo avevano destinato alla carriera ecclesiastica, prospettiva questa che a Mario non dispiaceva, giacché era incline alle cerimonie e spesso si era esaltato davanti alla solennità e allo splendore del rito. In particolare, ambiva diventare un grande predicatore. Un giorno, mentre stavano sdraiati all’ombra dei pampani su una collina arsa dal sole, Mario, esclamò: “Non so davvero che cosa darei pur d’avere il dono dell’eloquenza!”

Anselmo guardò l’amico con occhi pieni d’affetto e di devozione, e Anselmo mormorò: “Mario, io pregherò tutti i giorni affinché tu possa avere quel dono”. Colpito dalla stranezza d’una simile promessa – poiché Anselmo non era particolarmente religioso – Mario scoppiò in una risata. Con affettuosa condiscendenza mise il braccio intorno alle magre spalle del compagno.

Amico mio, ti sono profondamente grato; ma credo che studierò ugualmente retorica”.

A questo punto Mario entrò nel Convento dei cappuccini. Per alcuni mesi Anselmo ciondolò sconsolatamente per il paese; poi, incapace si sopportare, seguì l’amico nel convento, dove fu accolto come converso, cioè come uno di quei servi dell’Ordine che adempiono ai più umili servizio. La differenza delle loro mansioni teneva separati i due amici, ma almeno Anselmo stava sotto lo stesso tetto di Mario, e mentre lavorava nei campi, o governava il bestiame o lavava il pavimento del refettorio, poteva scambiate col diletto compagno uno sguardo d’intesa e magari qualche parola.

Al momento dovuto, Mario ricevé gli ordini. La vigilia di Pasqua, il giorno in cui doveva tenere la prima predica, mentre passava per il chiostro, un’umile figura l’aspettava.

Buona fortuna, Mario … Ci sarò anch’io … e pregherò per te”.

La mattina dopo, salendo il pulpito, la prima persona che Mario vide proprio sotto di sé, addossata ad un pilastro nell’angolo della navata, gli occhi ardenti e pieni di aspettazione fissi su di lui, era Anselmo. Incoraggiato da quell’omaggio silenzioso, Mario dette il meglio di sé. Fu una predica ispirata: se ne erano sentite ben poche, di migliori, nella vecchia chiesa del convento. E ne seguirono altre, a intervalli, ancor più eloquenti e vigorose, che commossero i membri del capitolo e fecero salire lagrime di orgoglio agli occhi del converso, sempre lì all’oscuro, addossato contro il pilastro ai piedi del pulpito.

La fama di Mario come predicatore crebbe sempre più. Quando fu invitato a predicare nelle altre chiese della provincia, il Superiore gli permise di accettare, e, poiché di regola nessuno poteva allontanarsi dal convento senza essere accompagnato, acconsentì volentieri alla preghiera di Mario che Anselmo andasse con lui.

Passarono gli anni, e i due percorsero insieme l’Italia per lungo e largo. Era inevitabile che i meriti di padre Mario fossero ricompensati. Fu nominato predicatore ordinario del re di Napoli, e infine vescovo dell’Aquila. Colà, nel suo palazzo episcopale, visse da grande signore. Blandito dalla nobiltà, ricercato dai principi della chiesa, divenne una potenza. La sua figura si fece imponente, le sue maniere solenni. Ora, per dire il vero, si degnava appena di accorgersi dell’umile e volenteroso fraticello che, seppur curvo e raggrinzito, seguiva ancora a servirlo con abnegazione, prendendo amorevolmente cura dei suoi splendidi paramenti, lucidandogli le fibbie ingioiellate delle scarpe, preparandogli a perfezione la tazza di cioccolata che interrompeva il digiuno episcopale.

Ma una domenica, mentre predicava, il vescovo avvertì vagamente che qualcosa mancava intorno a lui. Era una sensazione strana, sconcertante; e guardando in giù, s’accorse che Anselmo non era al solito posto. Sorpreso, il vescovo s’interruppe per un attimo, né gli fu facile riprendere il filo del sermone. Fortunatamente la predica volgeva al temine. Appena l’ebbe finita, il vescovo si affrettò in sacrestia, e ordinò che chiamassero subito Anselmo.

Ci fu un momento di silenzio. Poi un vecchio prete rispose con calma.

È morto poco fa”.

Un’espressione di profondo stupore passò sul viso del vescovo mentre il vecchio prete continuava:

Da mesi soffriva d’una malattia incurabile. Non aveva mai voluto farlo sapere a vostra eccellenza per timore si disturbarla”.

Un’onda di dolore salì al cuore di Mario ma più acuta del suo dolore era quella strana sensazione d’aver perso qualcosa di suo. Con voce mutata disse:

Conducetemi da lui”.

Il silenzio fu accompagnato dietro le stalle, in una cella nuda e angusta dove, su un tavolaccio coperto di paglia, ravvolte una tonaca consumata, giacevano le spoglie mortali del suo amico d’infanzia. Il vescovo sembrava meditare. Paragonava forse quella nuda povertà al fasto sei suoi appartamenti? Rivolse uno sguardo interrogativo al vecchio prete.

Abitava qui?”

Sì, Eccellenza”.

E … come passava le sue giornate?”

Eccellenza”, rispose sorpreso il prete: “Vi serviva”.

Ma oltre a questo?”

Non gli rimaneva molto tempo libero, Eccellenza. Ma ogni giorno, in giardino, dava da mangiare agli uccellini dalla sua stessa scodella. Parlava spesso con i bambini ai cancelli del palazzo; e credo che, nelle cucine, sfamasse i mendicanti. E poi … pregava”.

Pregava?” mormorò il vescovo come se questa parola gli riuscisse strana.

Sì, Eccellenza, per essere un povero converso pregava da non credere. E sempre, quando gli domandavano per che cosa pregasse, mormorava: Per una buona intenzione”.

L’espressione del vescovo era imperscrutabile; ma era come se un pugnale gli trafiggesse il cuore. E tuttavia, pur se non aveva apprezzato debitamente quel che Anselmo valeva, e pur se, negli ultimi anni, lo aveva trattato con superbia, non poteva soffermarsi, ora, a farsi dei rimproveri. Doveva partire immediatamente per Roma, dove, in San Pietro, doveva predicare a un Concilio episcopale.

Quando, il giorno dopo, salì lentamente sul pulpito, l’immensa basilica era gremita. Era un onore ambito da gran tempo, un fulgido momento della sua splendida ascesa. Ma appena cominciò a parlare nel silenzio pieno d’aspettazione, le parole gli uscirono a fatica dalle labbra. Sentì sorpresa e la delusione dei fedeli. Il sudore gli imperlò la fronte.

Disperato, guardò sotto di sé, ma non c’erano più quegli occhi estatici, nell’ombra del pulpito. Smarrito, Mario finì il sermone balbettando: poi, confuso, uscì da San Pietro.

Profondamente ferito nella propria superbia, furente per essersi lasciato turbare da una così stupida ubbia, si mise all’opera per preparare la prossima predica con meticolosa cura. Che lui, il vescovo dell’Aquila, il più grande predicatore d’Italia, dovesse tutto a uno sciocco e oscuro converso: quale pazzia! Eppure, giunto al punto di pronunziare il nuovo sermone, le sue parole furono senza vita. Quell’ossessione s’aggravò e, un giorno, egli crollò completamente e dovette esser sorretto per scendere dal pulpito. Balbettò, affranto:

E però … la sostanza era lui … io non sono che il vuoto ricettacolo”.

I medici convennero che si era affaticato troppo, che aveva bisogno di cambiare aria; e affinché potesse riacquistare più rapidamente la salute e le forze, gli suggerirono un viaggio negli Alti Pirenei. Ma Mario non ne volle sapere: preferì, invece, andare al convento dove aveva ricevuto gli ordini, dove Anselmo era entrato per servirlo, dove il piccolo converso era adesso sepolto.

Colà Mario trascorse il tempo in clausura, passeggiando in solitaria meditazione nel giardino del convento, visitando ogni giorno il camposanto ombreggiato dagli ulivi. Un profondo mutamento era avvenuto in lui: la sua iattanza terrena s’era, il suo contegno s’era fatto dimesso. Un pomeriggio, il Superiore lo sorprese inginocchiato presso la tomba di Anselmo. Quando si alzò, il Superiore gli posò la mano sulla spalla.

E allora, figlio mio”, gli chiese con un sorriso tra il deferente e l’affettuoso: “Preghi che ti sia resa l’eloquenza?”

No, Padre”, rispose Mario gravemente: “Chiedo una grazia molto più grande”. E a bassa voce soggiunse: “L’umiltà”.

A.J. Cronin.

Una bella storia, e subito fa pensare, a san Francesco con i poveri e i bambini. Ma non solo.santalfonso Proprio nel settecento a Napoli sant’Alfonso Maria de’ Liguori (Napoli, 27 settembre 1696 – Nocera dei Pagani, 1° agosto 1787) era dottore in utroqe ed autore della Theologia moralis e La pratica del confessore, e di molti altri scritti. E del santo sono figli la Congregazione del Santissimo Redentore, le missioni al popolo e i canti con voci napoletane come Quanno bascette Ninno e del Tu scendi dalle stelle in toscano. Il tutto per gustare l’amor a Gesù e i suoi piccoli e grandi, seppur lazzeroni in vari modi con quel povero Lazzaro di fronte al ricco Epulone secondo la parabola di san Luca (16,19-31).

E giova un po’ d’ironia:

Intesi allora che i cipressi e il sole

una gentil pietade a aven di me,

e presto il mormorio si fe’ parole:

ben si sappiano un pover uom tu se’.

[oppure Intesi allora che i cipressi e il sole / una gentil pietade a aven di me, / ecc.]

In Davanti San Guido (33-36) di Giosuè Carducci, nel dicembre del 1874.

E mi ricordo bambino, di prima o non di più, sulla darsena di Viareggio col nonno. Mi fece notare una scritta che mi parve buffa:

Saranno grandi i papi,

sarann potenti i re,

ma quando qui si siedono

fan tutti come me.

[oppure Saranno grandi i papi, / sarann potenti i re, / ecc.]

Parola di madre natura.

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