di Stefano Liccioli • «Si considera l’essere umano in se stesso come un bene di consumo, che si può usare e poi gettare. Abbiamo dato inizio alla cultura dello “scarto” che, addirittura, viene promossa. Non si tratta più semplicemente del fenomeno dello sfruttamento e dell’oppressione, ma di qualcosa di nuovo: con l’esclusione resta colpita, nella sua stessa radice, l’appartenenza alla società in cui si vive, dal momento che in essa non si sta nei bassifondi, nella periferia, o senza potere, bensì si sta fuori. Gli esclusi non sono “sfruttati” ma rifiuti, “avanzi”» (EG 53).
Da questo passaggio dell’Evangelii Gaudium ha preso spunto un’esperienza condotta con alcuni giovani liceali rivolta ad educarli a combattere la cultura dello scarto di cui parla Papa Francesco. Sulle nuove generazioni infatti ha un particolare fascino una visione del mondo incentrata sull’efficientismo, su ciò che è esteriormente bello e gradevole. Occorre dunque contrastare, partendo proprio dai giovani, questa cultura dominante in cui, come afferma sempre il Santo Padre, «il primo posto è occupato da ciò che è esteriore, immediato, visibile, veloce, superficiale, provvisorio. Il reale cede il posto all’apparenza».
L’esperienza è consistita nel far riflettere i giovani su, principalmente, tre tipi di fragilità: quella dovuta alla vecchiaia, quella causata dalla malattia e quella imputabile alla povertà. Consapevoli che le parole ammoniscono e gli esempi trascinano, la riflessione si è basata su testimonianza di persone che stando a contatto con anziani, malati e poveri ne hanno messo in luce l’alto valore, un valore che si nasconde dietro una condizione di fragilità, a volte anche estrema.
Abbiamo in questi giorni meditato la passione e morte di Gesù il quale ci ha salvato proprio attraverso la croce, mediante cioé una situazione di massima debolezza.
Affrontando il tema della disabilità, soprattutto quella attribuibile a disfunzioni genetiche, i ragazzi si sono chiesti ed hanno chiesto se fosse giusto lasciare che le persone fossero condannate all’infelicità. Da qui la risposta che non possiamo misurare il valore della vita da quello che può consentire di fare e che stando a contatto con le persone che riteniamo meno fortunate ci possiamo accorgere invece che non sono per niente insoddisfatte della loro esistenze. Poi, iniziare a mettere in discussione il valore della vita in base a presunti standard qualitativi basati sull’efficienza, vuol dire imboccare un pendio scivoloso che non si sa dove possa portare (come esempio sono stati citati certi programmi eugenetici).
Significativo anche l’intervento di chi ha raccontato il proprio servizio a favore dei senzatetto, persone che a volte si trovano in povertà non per proprie responsabilità e che dobbiamo imparare a guardare andando oltre certi pregiudizi.
Tutte le testimonianza si sono chiuse con un invito rivolto ai giovani non solo ad avere un sguardo diverso su queste condizioni di fragilità (un risultato che sarebbe già importante), ma anche ad impegnarsi per farsi prossimi alle persone malate, emarginate o anziane, senza grandi gesti, ma donando un po’ del proprio tempo per starli vicini.
Come conclusione finale è stata letta una meditazione di don Mazzolari che in un passaggio recita così:«Ci impegniamo non per riordinare il mondo, non per rifarlo su misura, ma per amarlo; per amare anche quello che non possiamo accettare, anche quello che non è amabile, anche quello che pare rifiutarsi all’amore, poiché dietro ogni volto e sotto ogni cuore c’è insieme a una grande sete d’amore, il volto e il cuore dell’amore».