La gioia della penitenza

260 288 Carlo Nardi
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home_fotodi Carlo Nardi • La torre di Siloe che maciullò i disgraziati sottostanti con l’ammonimento di Gesù a non ritenerli più peccatori di altri (Lc 13,4), specialmente a Firenze, fa venire in mente – è tutto dire! – una barzelletta che la nostra pensosa ironia tirò fuori persino dalla mota untuosa dell’alluvione: quella del bambino che domanda alla mamma: “Perché questo diluvio?” al quale tenta rispondere: “Per colpa dei peccati dei fiorentini!” E il ragazzetto vispo: “O che tutti i peccatori stanno al pian terreno?” Un salutare avviso a non immiserire la giustizia di Dio a seconda delle nostre menti piccine.
Detto questo, però, non è detto tutto. Tutt’altro. Gesù continua: «Ma se non vi convertirete, perirete tutti allo stesso modo» (Lc 13,5). Parole serie, molto serie. Sono le più importanti di sempre, perché si tratta della vita eterna. Si parla di un “perire” a seguito di una conversione rimandata senza scadenza, mai realizzata da parte di chi si chiude sempre di più a Dio, diffidando della sua misericordia e di se stesso, ora presumendo di sé ora disperando. Si presume quando di ascolta la voce ingannevole di una falsa coscienza: “O che vuoi che sia quello che hai fatto? Lo fanno tutti”. Cosa tra l’altro da dimostrare. E così via si comincia o si continua a giocare con la propria coscienza nella quale c’è ancora qualche pungolo di bene, ma si rischia o anche si tenta di soffocare quel prezioso barlume. Schiacciato da rimorsi più o meno consapevoli, l’uomo può disperare della bontà infinita di Dio che vuol donare nuove risorse di speranza. Altrimenti è un procrastinare la penitenza. Un rinvio che alla fine è solitudine assoluta: l’inferno come perdita di Dio.
Sono parole serie. Dovrebbero accompagnarci sempre per vivere e morire bene, e vivere in Dio. Abbiamo bisogno di speranza e ce n’è motivo: Dio, che è Padre, è fedele alle sue promesse; ha dato il Figlio che si è donato per noi e a sua volta, col Padre, ci ha donato il suo Spirito per la remissione dei peccati e aprirci “settanta volte sette” (Mt 18,22) ad una speranza pensosa, operosa, gioiosa. E, per ogni circostanza della vita, «è una delle facoltà singolari e incomunicabile della religione cristiana, il poter indirizzare e consolare chiunque, in qualsivoglia congiuntura, a qualsivoglia termine, ricorra ad essa» (Alessandro Manzoni, I Promessi Sposi, cap. X).
Sì, la speranza è possibile, da non spegnere in noi stessi e neppure nel nostro prossimo.
Dante lo sa e, seppur nel suo Paradiso, sembra ragionare alla buona:


Non creda donna Berta o ser Martino
per veder un furare altro offerere
vederli dentro al consiglio divino:
ché quel può surgere e quel può cadere (Paradiso XIII,139-142).


È la conclusione del canto tredicesimo. Come dire: “Non pensi Tizio o Caio, per il semplice fatto che uno rubi (il furare) e un altro faccia offerte (l’offerere), che questi siano visti così, l’uno ladro e l’altro santo, nel definitivo giudizio di Dio, per il fatto altrettanto semplice che il primo può rialzarsi (surgere), ossia convertirsi e pertanto salvarsi, e il secondo piombare nella disonestà e rimanerci”.
Dante, infatti, poco prima aveva ammonito:


Non sien le genti ancor troppo sicure
a giudicar, sì come quei che stima
le biade in campo pria che sien mature (Paradiso XIII,130-132).


Appunto “come chi dà una valutazione delle spighe prima che siano mature”. Riguardo al giudizio, sia particolare che universale, l’atteggiamento migliore è rimetterci nelle mani di un Dio che sa ed ama; e insieme essere trepidanti verso ma senza scoraggiamenti, attenti ma senza ansia, vigili ma senza angosce, penitenti senza ostentazioni, ma speranzosi in quella misericordia che tocca i cuori più duri. Il giudizio definitivo compete solo a Dio, perché «l’uomo vede il volto e Dio solo vede il cuore» (1Sam 16,7).
Dante aveva in mente parole di sant’Agostino? Quali? Quelle di una sua predica: «Parlaci con il tuo prossimo, e tuo prossimo è lui che, come te, è nato da Adamo ed Eva», perché, insomma, veniamo tutti dallo … stesso buco, per dirla in un modo grassoccio, ma efficace e, soprattutto, vero. «Siamo tutti ‘prossimi’», vicini, «per il dato di fatto della nostra nascita terrena e, per un altro verso, perché siamo fratelli per la speranza dell’eredità del cielo. Devi pensare che tuo prossimo è ogni essere umano, anche prima che sia cristiano, perché non sai se egli sia in Dio», nei suoi intendimenti di salvezza: perché, «come Dio lo abbia conosciuto nella sua prescienza, tu lo ignori. Quel tale che tu prendi in giro quando si mette ad adorare delle le pietre, c’è il caso che si converta e adori Iddio, forse con più devozione di te che poco prima lo prendevi per i fondelli. Ci sono così nostri prossimi che non risultano tali, quelli che non sono ancora nella Chiesa», almeno non in quella visibile, «e ce ne sono altri, lontani da noi, che nella Chiesa non risultano lontani. Di conseguenza, noi che non sappiamo come andranno a finire le cose, consideriamo ciascuno nostro prossimo, non solo per il dato di fatto della nostra umanità mortale, mediante la quale siamo venuti su questa terra per una medesima sorte, ma anche per la speranza di quella eredità, perché non sappiano che cosa diventerà colui che ancora non lo è» (Agostino, Commento ai Salmi, al Salmo 25,II,2).
E se si volesse meditare le cose eterne, con un po’ di tempo e d’impegno ci è dato aprire il terzo canto del Purgatorio, quello di Manfredi, per “leggere”, scoprire e scorgere “in Dio la faccia” della sua misericordia (III,126. cf. 124-135).
Dice ancora Dante: “Beati quorum tecta sunt peccata”, ossia: «Beati coloro a cui sono coperti i peccati», per tradurre il latino di un salmo ebraico a sua volta tradotto in latino, il Salmo 31, da citare giulivi quando il poeta lo introduce nel Purgatorio, pone il primo versetto del salmo sulle labbra di Matelda e narra che la donna, che fu contessa di Tuscia, «cantando come donna innamorata, / continuò col fin di sue parole: / Beati quorum tecta sunt peccata!» (Purgatorio XXIX,1-3).
Quel canto è gioia effusiva di penitenza, di perdono operante ed efficace, tanto più che nell’italiano delle due bibbie CEI il Salmo si legge come «Beati coloro a cui sono rimesse le iniquità», usando cattolicamente la Scrittura con l’incoraggiamento che proviene dal Concilio di Trento per la giustificazione effettivamente donata per misericordia di Dio. Ci fa bene pensare a tutto ciò e gioirne nella terza domenica di avvento, la cosiddetta Gaudete, tra le perplessità persino di un Giovanni Battista e il tripudio di Isaia, dove si ravvisa la nostra fragilità e la promessa di Dio. E ci aiuta a cantare l’avvio di quel salmo anche il papa Francesco nel terzo paragrafo dell’Esortazione Evangelii gaudium da lui indirizzata nel 2013 a tutti, fratelli e sorelle, in Cristo:
«Invito ogni cristiano, in qualsiasi luogo e situazione si trovi, a rinnovare oggi stesso il suo incontro personale con Gesù Cristo o, almeno, a prendere la decisione di lasciarsi incontrare da Lui, di cercarlo ogni giorno senza sosta. Non c’è motivo per cui qualcuno possa pensare che questo invito non è per lui, perché «nessuno è escluso dalla gioia portata dal Signore» (Paolo VI, Gaudete in Domino, 9 maggio 1975, n. 22). Chi rischia, il Signore non lo delude, e quando qualcuno fa un piccolo passo verso Gesù, scopre che Lui già aspettava il suo arrivo a braccia aperte. Questo è il momento per dire a Gesù Cristo: «Signore, mi sono lasciato ingannare, in mille maniere sono fuggito dal tuo amore, però sono qui un’altra volta per rinnovare la mia alleanza con te. Ho bisogno di te. Riscattami di nuovo Signore, accettami ancora una volta fra le tue braccia redentrici». Ci fa tanto bene tornare a Lui quando ci siamo perduti! Insisto ancora una volta: Dio non si stanca mai di perdonare, siamo noi che ci stanchiamo di chiedere la sua misericordia. Colui che ci ha invitato a perdonare «settanta volte sette» (Mt 18,22) ci dà l’esempio: Egli perdona settanta volte sette. Torna a caricarci sulle sue spalle una volta dopo l’altra. Nessuno potrà toglierci la dignità che ci conferisce questo amore infinito e incrollabile. Egli ci permette di alzare la testa e ricominciare, con una tenerezza che mai ci delude e che sempre può restituirci la gioia. Non fuggiamo dalla risurrezione di Gesù, non diamoci mai per vinti, accada quel che accada. Nulla possa più della sua vita che ci spinge in avanti!»

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