Il discorso di papa Francesco al Pontificio Seminario Lombardo

220 142 Francesco Vermigli
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f_04_05_san-carlo2di Francesco Vermigli L’11 novembre del 1965 papa Paolo VI, ex alunno dello stesso istituto, inaugurava la nuova sede – ristrutturata ab imis – del Pontificio Seminario Lombardo dei SS. Ambrogio e Carlo in Urbe. In occasione del cinquantesimo anniversario di questa ricorrenza, la comunità di preti che oggi vi risiede, è stata accolta da papa Francesco nella Sala Clementina, la mattina di lunedì 25 gennaio 2016, festa liturgica della Conversione di san Paolo. L’inizio dell’udienza è stato segnato dall’indirizzo di saluto del cardinale Angelo Scola, che, in qualità di arcivescovo di Milano, ha rappresentato le diocesi lombarde, sotto la vigilanza e l’autorità delle quali è posto il Seminario. L’udienza si è conclusa con la recita dell’Angelus e il lungo saluto che il pontefice ha voluto scambiare con ciascuno degli oltre sessanta preti che costituiscono oggi la comunità. Al centro, il discorso che ha tenuto papa Francesco: la densità di tale discorso ha attratto fin da subito l’attenzione dei mezzi di comunicazione.

Dopo aver rievocato la ricorrenza della nuova fondazione ed averla collocata nei momenti conclusivi del Concilio Vaticano II, Francesco ha immediatamente rivolto il proprio interesse alla vita presbiterale. Lo ha fatto innanzitutto richiamando alla memoria – come una sorta di medaglione di santità – la figura austera e vibrante di Carlo Borromeo, che assieme ad Ambrogio è patrono principale del Lombardo. Lo ha fatto, più precisamente, attraverso l’interpretazione che di questo santo vescovo – così cruciale per la storia del cattolicesimo – ha fatto il gesuita Michel de Certeau, che ha colto la vita del Borromeo come mossa da un continuo anelito di conversione.

Nel discorso del papa questa figura cinquecentesca si riverbera immediatamente nella proposta di un tipo di prete, che acquista tratti ben chiari e delineati. Il tratto della santità innanzitutto, come antidoto contro ogni pericolo di “normalità” del prete; riconoscendo che nella stessa santità consiste la condizione normale della vita presbiterale. La santità, dice il pontefice, previene dalla mediocrità nella vita spirituale e dalla tiepidezza nel ministero. In effetti, a ben vedere, la santità cui si riferisce il papa ha una declinazione ulteriore: Francesco la definisce subito di seguito come “santità pastorale”, come l’offerta, cioè, che il prete fa della propria vita nell’azione ministeriale. Di seguito dice che questa santità è un dono che integra la persona del prete, che solo così può vivere «non a compartimenti stagni». Questo è un dono – aggiunge il pontefice – che giunge al prete mediante «un dialogo costante con la Parola di Dio, o, meglio, con Dio che ci parla». Il tono di papa Francesco è singolare rispetto ai suoi predecessori. Eppure nella convergenza, da un lato, della specificazione della santità come “pastorale” e, dall’altro, dell’insistenza sulla vita del prete come plasmata dall’ascolto quotidiano di Dio, paiono quasi unirsi le linee prevalenti degli insegnamenti che rispettivamente Giovanni Paolo II e Benedetto XVI hanno dato sulla persona e sul ministero del prete. In definitiva, papa Francesco coglie negli aspetti su cui i suoi due predecessori si sono soffermati maggiormente, la via per una vita presbiterale piena: esercizio misericordioso nel ministero e crescita interiore sono i due pilastri su cui il prete è chiamato a costruire la propria vita.

Ma non solo questo. Il papa non manca di completare la figura del prete diocesano, rimandando alla necessità della vicinanza col vescovo; pena l’infecondità e la sterilità nel proprio ministero. In effetti, essere preti significa appartenere ad un presbiterio; in ragione della quale appartenenza non si è mai soli nel ministero, ma sempre parte di una comunità di uomini dediti al Vangelo, che si raccoglie attorno al proprio vescovo. Qui, si direbbe, l’arco dei riferimenti magisteriali precedenti si chiude: nella breve sezione del discorso dedicata a questo punto, Francesco si collega idealmente al Vaticano II, laddove il concilio intende il prete come parte di una comunità che si raduna attorno al vescovo.

Non è certo la prima volta che il papa offre discorsi e insegnamenti sulla persona e sulla vita del prete. Quello che sembra rilevante in quest’occasione è la sinteticità e la densità delle considerazioni fatte. Lo spunto borromaico si dirà suscitato dall’occasione particolare: dal fatto, cioè, che il papa si è rivolto a preti appartenenti a quella comunità che nel vescovo ambrosiano ha il proprio patrono. Eppure quel riferimento pare più di una coincidenza. Nella figura del santo cinquecentesco sembrano avvolgersi tutte quelle sollecitazioni attorno alla vita del prete che hanno strutturato il suo intervento: dalla specchiata santità di vita all’impegno pastorale fino all’estrema donazione di sé, fino al continuo tentativo di raccogliere attorno a sé la comunita presbiterale. Così facendo, Francesco ha parlato ai preti di oggi con uno sguardo rivolto ad una storia grande, che ha ancora la capacità di ispirare la vita del ministro ordinato.

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Francesco Vermigli

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