Le follie del calciomercato, cosmesi per il Qatar

658 303 Antonio Lovascio
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821017028-0124-ksjE-U2105283941845vD-620x349@Gazzetta-Web_articolodi Antonio Lovascio Cosa c’entrano Neymar e Mmappé con gli equilibri nel Golfo? Perché si accosta lo scandalo calcistico dell’estate al terrorismo di matrice islamica ? Troppo facile rispondere. Inoltre il tempo è galantuomo: presto emergerà tutta la verità, si troveranno conferme ai numerosi interrogativi che ci siamo posti davanti ad operazioni di mercato da far impallidire chi, negli anni scorsi, aveva usato epiteti simili per le follie cinesi in Europa incoraggiate dallo stesso governo di Pechino o per gli acquisti di Gareth Bale e Paul Pogba da parte, rispettivamente, di Real Madrid e Manchester United. Allora pagati “solo” 100 milioni di euro che sembrano spiccioli rispetto all’affare che ha appena coinvolto il talento brasiliano: 222 milioni di clausola rescissoria sborsata dal Paris Saint Germain al Barcellona, ai quali ne vanno aggiunti circa 80 di tasse per il fisco spagnolo e 300 lordi per il contratto del calciatore. Se fate i conti, si arriva alla bella cifra di 600 milioni di euro per un giocatore.

E dietro ad investimenti di questa portata non poteva che esserci una proprietà come quella del club francese, prelevato nel 2011 attraverso il Fondo sovrano del Qatar. Nasser Al-Khelaïfi – presidente della squadra parigina e a capo della Qatar Sports Investments che ne detiene il 100% – ha fortemente voluto Neymar, tanto da sfidare la società catalana e la stessa Federcalcio spagnola, che lo accusano di aver “drogato” il mercato aggirando le regole del fair play finanziario, con la FIFA e l’UEFA del tutto impotenti. Il trentasettenne emiro di Doha non è nuovo a questi colpi di scena: si era già portato a casa interi eventi come i Mondiali di calcio del 2022 ed il suo principale testimonial sarà proprio “O Ney”. Non si sa bene quale sia la disciplina agonistica preferita dello sceicco (è stato visto giocare a badminton e a bowling). Ma allo sport si è dedicato a lungo – presiedendo il comitato olimpico del Qatar, ospitando i Giochi asiatici e i Campionati mondiali di nuoto – e se ne occupa ancora avendo scoperto che è uno strumento eccezionale di soft power. Lo fa, ma non a tempo pieno: ha troppe cose a cui pensare. Quarto figlio maschio dell’emiro Hamad bin Khalifa al-Thani e secondogenito della moglie prediletta Mozah, “Tamim” ha preso il potere quando suo padre abdicò nel giugno 2013, diventando il più giovane leader in una regione abituata ai sovrani a vita e capo di un Fondo da 40 miliardi di euro che fa profitti pazzeschi grazie al gas naturale. Ha studiato all’accademia militare di Sandhurst in Inghilterra (la stessa del principe William) e ha dieci figli (da tre mogli). Oltre al trono della minuscola monarchia del Golfo, ha ereditato un impero economico in Occidente: l’ex protettorato britannico possiede infatti più beni a Londra della Regina Elisabetta (inclusi i grandi magazzini Harrods, il grattacielo Shard, parte di Canary Wharf e della Borsa) e, tra le altre cose, terreni in Costa Smeralda, la maison Valentino, una collezione d’arte che include Cézanne, Rothko, Warhol.

Se si considera il reddito medio pro-capite, il Qatar – due milioni e mezzo di abitanti – è al primo posto nel pianeta con 132mila dollari (l’Italia, per fare un paragone, è trentunesima con 35.700). Ha riserve di gas per 25 trilioni di metri cubi, il 14 per cento del totale mondiale; estrae 1,8 milioni di barili di greggio al giorno. L’esportazione di idrocarburi produce oltre la metà della sua ricchezza.

Come ha scritto il settimanale francese Le Point, “se il Kuwait avesse organizzato il Mondiale del ’90, credete che Saddam avrebbe osato invaderlo?”. Ora, con la grave crisi diplomatica che da tre mesi contrappone il Qatar all’Arabia Saudita, agli Emirati, al Bahrein, all’’Egitto (con le voci di un possibile golpe contro lo sceicco Tamim), le garanzie non sono mai abbastanza. Il sorriso scanzonato del campione brasiliano è la carta seducente messa in copertina per uscire dall’isolamento, per occultare l’altra faccia dell’Emirato, appunto accusato dai Paesi vicini di finanziare formazioni fondamentaliste in Siria e in Libia. E perciò sconta da giugno un embargo voluto soprattutto dall’Arabia Saudita sunnita per punire uno Stato considerato troppo amichevole con gli eterni rivali iraniani sciiti.

Dunque sul Golfo si addensano nubi nere. Non è detto che all’Emiro di Doha sia sempre concesso di giocare sporco. Anche i Mondiali 2022 potrebbero diventare a rischio. La questione è già finita sul tavolo della Fifa, che tanto per non smentirsi ha preso tempo. Di certo, in attesa degli sviluppi, non si può ignorare il fatto che l’appuntamento iridato in programma tra cinque anni – il primo che, per ragioni climatiche, si disputerà in inverno, poco dopo Natale – sia nato quantomeno sotto una cattiva stella. Tra scandali, inchieste internazionali, rapporti choc sugli operai- schiavi nei cantieri, ‘Qatar 2022’ è sinonimo di guai fin dal momento della sua assegnazione, oltre che in odore di tangenti. Con Blatter e Platini costretti alle dimissioni, sono stati “decapitati” i vertici FIFA e UEFA, sospettate di aver favorito pure la Russia di Putin concedendole il business della fase finale 2018.

La storia è piena di invasioni di campo della politica nello sport più diffuso. Gli esempi abbondano: basterebbe ricordare i due Mondiali vinti con Mussolini e piegati alla propaganda di regime, o il Mondiale dei generali argentini coi desaparecidos nel sottosuolo di Buenos Aires servito come arma di distrazione di massa. Sono cambiati i mezzi, certo. Ma purtroppo non le cattive abitudini! L’etica è proprio finita nel pallone….

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Antonio Lovascio

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