di Mario Alexis Portella · Nel 2018 la Sede Apostolica ha fatto un accordo provvisorio, progettato dal Segretario di Stato Vaticano il Cardinale Pietro Parolin, con la Cina con la speranza di “riconciliare… alla piena comunione di tutti i cattolici cinesi,” in modo particolare, l’Associazione patriottica cattolica cinese, cioè il clero ed i fedeli della Chiesa di stato.
L’impressione immediata è che il cattolicesimo abbia trovato una serenità reale in Cina. Sebbene i dettagli dell’accordo del 2018 non siano ancora stati resi pubblici, sappiamo che il Partito Comunista Cinese (PCC) ha l’autorità di nominare i vescovi; il Vescovo di Roma li conferma in seguito.
Questo non è la prima volta che la Chiesa fa un concordato con uno Stato autoritario, come:
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I Patti Lateranensi dell’11 febbraio 1929; in quel occasione si è concluso un lungo e travagliato percorso storico, diplomatico e politico che portava al duplice riconoscimento tra lo Stato italiano e la Santa Apostolica. In tal modo la Questione romana veniva dichiarata “definitivamente e irrevocabilmente” superata. Il paradosso fu che Benito Mussolini consolidò il suo potere, così portò il paese, con l’appoggio di quasi tutta la gerarchia cattolica italiana, in due guerre: quella contro l’Etiopia e la Seconda Guerra Mondiale.
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Il Reichskonkordat tra la Sede Apostolica e la Germania nazista. Firmato dal Nunzio Apostolico l’Arcivescovo Eugenio Pacelli (il futuro papa Pio XII) — nonostante delle perplessità del papa Pio XI — e Franz von Papen, il Vice Cancelliere di Adolf Hitler il 20 luglio 1933. Esso inoltre assicurava la lealtà dei vescovi allo stato attraverso un giuramento e richiedeva che tutti i preti fossero tedeschi e soggetti ai superiori tedeschi. Restrizioni furono anche poste alle organizzazioni cattoliche.
Negli anni ‘60, la Chiesa iniziò, sotto il suo principale architetto, l’Arcivescovo Agostino Casaroli, l’obiettivo strategico dell’Ostpolitik. Essa cercò di trovare un modus non moriendi (modo di non morire) per la Chiesa nei paesi del Patto di Varsavia. Le tattiche includevano la cessazione di tutte le critiche pubbliche del Vaticano nei confronti dei regimi comunisti e infinite trattative con i governi comunisti. I risultati furono, per dirla delicatamente, terribili:
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In Ungheria, dove, a metà degli anni ’70, la leadership della Chiesa e le sue proprietà erano gestite dal partito comunista ungherese, che aveva anche il controllo de facto del Collegio ungherese a Roma.
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U.S. Congressional-Executive Commission on China. In Cecoslovacchia, l’Ostpolitik ha dato potere a una banda di collaboratori clericali che hanno servito come fronte per il partito comunista e le sue repressioni.
Tutto saltò con l’imprevista elezione di S. Giovanni Paolo II al soglio di S. Pietro: Il Patto di Varsavia nulla potè contro questo Pastore Universale che smascherò le dittature comuniste.
Come ha comunicato il U.S. Congressional-Executive Commission on China e il giornale Asia News, per la domenica di Pasqua—mi limito a questo esempio tra tanti—le autorità cinesi hanno demolito la croce che sormontava il timpano di una chiesa nella Diocesi di Xinxiang nella provincia di Henan. Un sacerdote, il Padre Shanren Shenfu, ha spiegato che il silenzio di fronte alla distruzione delle croci fa parte del prezzo per l’accordo del Vaticano con il PCC:
«Ora quando una croce viene rimossa, i cristiani devono essere calmi e sorridere. Accettare la rimozione delle croci come un evento quotidiano sembra quindi essere l’unico grande contributo che i fedeli cattolici cinesi e tutto il popolo di Dio possono dare alla continuazione dell’accordo».
Dobbiamo tenere presente che la Cina è uno dei più grandi violatori dei diritti umani nel mondo. Per il PCC il cristianesimo promuove valori e ideali occidentali che sono in conflitto con gli obiettivi del governo autoritario cinese, cosa che non avviene ne in Corea del Sud ne nelle Filippine.
Sarebbe opportuno di ricordare quella frase riportata dal Cardinale Alfredo Ottaviani: «historia concordatorum, historia dolorum Ecclesiae».