«Pilato compose anche l’iscrizione…era scritta in ebraico, in latino e in greco»

720 480 Stefano Tarocchi
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di Stefano Tarocchi È consuetudine delle celebrazioni della Settimana santa la lettura dei racconti della passione, nelle Liturgie della domenica delle Palme e del Venerdì Santo. È proprio da questi racconti evangelici della tradizione sinottica, ma soprattutto del quarto Vangelo che l’attenzione dei credenti viene condotta a riflettere su un particolare mantegnache l’iconografia della crocifissione ha sempre messo in rilievo, anche se in maniere assai differenti. Una delle più schematiche è raffigurata nel dipinto di Andrea Mantegna (1431-1506), risalente agli anni 1457-1450: se guardiamo la tavola (67×93), conservata al Museo del Louvre, sopra la croce di Cristo è apposta una tavoletta con quattro lettere puntate: I.N.R.I., le iniziali latine di una espressione che suona come Iesus Nazarenus rex Iudaeorum, ovvero «Gesù Nazareno re dei Giudei» (si veda M.L. RIGATO, I.N.R.I.: il titolo della Croce, EDB, Bologna 2010). Qui la tradizione seguita anche da Mantegna (e molti altri) semplifica – alludendo alla sola lingua della città, che aveva il governo sull’intera regione – quello che troviamo nel Vangelo secondo Giovanni: «Pilato compose anche l’iscrizione [titlos] e la fece porre sulla croce; vi era scritto: “Gesù il Nazareno, il re dei Giudei”. Molti Giudei lessero questa iscrizione, perché il luogo dove Gesù fu crocifisso era vicino alla città; era scritta in ebraico, in latino e in greco» (Gv 19,19-20). Il quarto Vangelo presenta due caratteristiche di rilievo: la prima è il termine greco titlos, mutuato dal latino titulus. Secondo lo storico Svetonio (70-126), una scritta su una tavoletta, spalmata di gesso bianco con lettere tracciate in nero, era portata da uno schiavo davanti al condannato o gli era appesa al collo (Vita di Caligola, 32), e poi poteva essere fissata sopra la croce.

La seconda caratteristica è il fatto che il Vangelo attribuisce a Pilato l’iniziativa dell’iscrizione (e il suo contenuto), con il risultato che si apre un contenzioso con le autorità giudaiche, presto risolto dal prefetto: «I capi dei sacerdoti dei Giudei dissero allora a Pilato: «Non scrivere: “Il re dei Giudei”, ma: “Costui ha detto: Io sono il re dei Giudei”». Rispose Pilato: «Quel che ho scritto, ho scritto» (Gv 19,21-22). Di fatto, Pilato si riprende il suo ruolo davanti a chi l’ha costretto a condurre a termine la condanna: l’iscrizione diventa paradossalmente un titolo che onora colui che lo porta sulla croce (così Rudolph Schnackenburg).

Già il Vangelo secondo Marco però anticipava Giovanni dicendo ai suoi lettori che crocifisso«la scritta [epigraphé] con il motivo della sua condanna diceva: “Il re dei Giudei”» (Mc 15,26), divenuta in Luca «“Costui è il re dei Giudei”» (Lc 23,38), o più letteralmente «Il re dei Giudei è questo». Anche Luca utilizza lo stesso termine greco di Marco, quando dice: «Sopra di lui c’era anche una scritta» (Lc 23,38). Il termine epigraphé è impiegato anche per la scritta posta sul denario romano in argento: «“È lecito o no pagare il tributo a Cesare? Lo dobbiamo dare, o no?”. Ma egli, conoscendo la loro ipocrisia, disse loro: “Perché volete mettermi alla prova? Portatemi un denaro: voglio vederlo”. Ed essi glielo portarono. Allora disse loro: “Questa immagine e l’iscrizione, di chi sono?”. Gli risposero: «Di Cesare». Gesù disse loro: “Quello che è di Cesare rendetelo a Cesare, e quello che è di Dio, a Dio”» (Mc 12,14-17; cf. 12,16; Mt 22,20 e Lc 20,24). Anche alcuni manoscritti, influenzati dal testo del Vangelo di Giovanni, aggiungono le altre lingue dell’iscrizione, come si può vedere nelle altre due immagini: rispettivamente, di Giovanni di Fiesole, detto il Beato Angelico (1395-1455) e di Cenni di Pepo, conosciuto come Cimabue (1240-1302).deposizione

Anche nel Vangelo secondo Matteo troviamo un riferimento allo stesso tema, ma con un diverso intendimento: «Al di sopra del suo capo posero il motivo scritto [aitìa] della sua condanna: “Costui è Gesù, il re dei Giudei”» (Mt 27,37). Il termine greco usato assume un valore giuridico, compatibilmente a quanto dice il Vangelo di Luca: «Pilato disse ai capi dei sacerdoti e alla folla: “Non trovo in quest’uomo alcun motivo di condanna [àition]”» (Lc 23,4; cf. 23,14.22). sembra si tratti della versione greca del termine latino crimen, che porta in sé la gravità di un delitto pubblico contro l’ordine della società e veniva perseguiti pubblicamente. Nel medesimo Vangelo, peraltro, è a quel punto che si apprende che Gesù viene crocifisso in mezzo a due «briganti», che altrove sono chiamati «malfattori» (Lc 23,32.33.39). Questo ci fa rilevare che in quel mattino ci sono starti altri due processi e che Gesù, per la collocazione ricevuta, è il più importante di tutti: non sembra che gli altri abbiano una condanna visibile dalla croce a cui sono confissi.

crocifisso diversoIn ultimo vorrei rammentare un’opera collocata nell’antica pieve di S. Vincenzo a Torri, ai piedi delle colline di Scandicci, nei pressi della via Volterrana, in cui significativamente la scritta collocata sul Cristo crocifisso testimonia – si tratta di un capolavoro anonimo del XIII secolo – il passaggio alla lingua volgare. Infatti possiamo leggere: IHS NAZARENUM REX IUDEORUM, anziché un maggiormente corretto IHS NAZARENUS REX IUDAEORUM. Particolarmente interessanti i primi tre caratteri [IHS], recanti un tratto superiore, che l’artista adatta al suo orizzonte come una versione intermedia tra il nome di Gesù trasportato dalla lingua originale greca [ΙΗΣ], evidentemente non più compresa, che lascia comunque trasparire la lettura giovannea («in ebraico, in latino e in greco»: Gv 19,20) verso la mutazione nel simbolo che a breve utilizzeranno S. Bernardino da Siena (1380-1444) e S. Ignazio di Loyola (1491-1556): appunto Iesus Hominum Salvator, il celeberrimo monogramma IHS.

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Stefano Tarocchi

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