Vero perché vero. Audacia ed umiltà

606 357 Carlo Nardi
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apdi Carlo Nardi • “Vero perché vero” può essere un modo di dire, un po’ pretenzioso di primo acchito, ma utile ed anche umile, per condensare in tre parole un detto in buon latino da Chiesa: quicquid verum a quocumque dicitur a Sancto dicitur Spiritu «tutto ciò che è vero, da chiunque sia detto, è detto dallo Spirito Santo». L’assioma si credeva fosse di sant’Ambrogio e facilmente poté entrare nella grande raccolta di disposizioni ecclesiastiche, il Decreto di Graziano. Piacque poi a san Tommaso d’Aquino, al Petrarca e al nostro sant’Antonino. Accompagna tutto il medioevo (Gilson). Poi, con Erasmo da Rotterdam, ci si accorse che non poteva essere di sant’Ambrogio. Lo si appioppò a un fantomatico Ambrosiaster, e forse perse punti nella stima generale.

Invece. Perché non si tien conto di quello che dice, perché non è poco? E che cosa dice? Vale la pena leggerlo e rileggerlo, pensandoci su, e in quelle poche parole si scoprono tante cose. Intanto, che non si può dire che una cosa è vera perché l’ha detta quello per fargli piacere e andare a letto contenti, come non posso dire che quella cosa è falsa perché l’ha detta quell’altro, e fargli dispetto e godere … con l’amaro in bocca. C’è bisogno invece di virtù, in particolare di prudentia latina, che è saggezza, anzi sapienza, e soprattutto di carità. Di tanta carità.

Se quella cosa lì è vera, anche se fosse in mezzo a tante bugie o esagerazioni o confusioni, va riconosciuta come tale e va rispettata, e se quella cosa si è scoperta e in essa c’è un barlume con un po’ più di luce per gl’occhi della ragione o della fede, ne va ringraziato Iddio e chi ce l’ha fatta conoscere. Senza esagerare, però: senza dar ragione quando ragione non c’è.

A questo proposito mi sovviene una battuta nel Carmide di Platone. In relazione ad una appropriata risposta dell’omonomo ragazzo, lo zio Crizia notava che non era farina del suo sacco. Al che Carmide notava: «Ma che differenza fa, o Socrate, da chi l’ho sentito dire?» «Nessuna – rispose Socrate – perché non si deve guardare a chi una cosa l’ha detta, ma se è vera o no» (Carmide 161bc). Ne deriva l’assiomatico amicus Plato, magis amica veritas «Platone è amico, ma più amico è il vero», una rielaborazione proverbiale di un passo di Aristotele (A Nicomaco I,4 a 16). E, per l’appunto, il senso del discorso era già in Platone: che «non si deve onorare un uomo più della verità» (Repubblica X 595c).

Dall’antica Grecia, e da patristica e scolastica, senso e parole dell’adagio pseudo ambrosiano sono proposti da Paolo VI nella commemorazione dell’Aquinate nel 1974 e da Giovanni Paolo II nella Fides et ratio del 1998. Nell’inaugurazione dell’anno accademico 1986-1987 dell’allora Studio teologico fiorentino il card. Silvano Piovanelli offriva una sua considerazione: «Mi sembra che oggi la teologia debba configurarsi come la fatica del pensare razionalmente la fede nella complessità della situazione presente: razionalmente, ossia con gli strumenti elaborati dalla cultura, anzi dalle culture attuali, nella fiducia che «tutto ciò che è vero, da chiunque sia detto, proviene dallo Spirito Santo» (sant’Ambrogio, san Tommaso), e ad un tempo nella consapevolezza dell’ampio margine di provvisorietà e ipoteticità dei risultati ottenuti, ma senza sottrarsi al dovere (dovere di immanenza) dell’intelligenza della fede».

Pagani e cristiani rammentati comunicano passione per la verità che ci deve essere cara. Anche san Paolo esortava: «Esaminate ogni cosa, prendete quel che è buono» (1 Ts 5,21), e Clemente di Alessandria, rifacendosi a testi più antichi, raccomandava d’imparare, come esperti cambiavalute, a distinguere le monete false da quelle vere. Così, come si augurava Mosè, «tutti possono essere profeti in mezzo al popolo di Dio» (Num 11,29) nell’opera oculata e paziente di discernimento del vero dal falso, del bene dal male, e nel gioire del vero e del bene che lo Spirito Santo ci dà a gustare e a far gustare.

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