Rifiuto del narcisismo per la scoperta dell’altro: rivisitando un saggio di Claudio Risé

252 400 Gianni Cioli
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di Gianni Cioli · In un tempo pesantemente segnato dall’individualismo (messo oggi per certi versi in crisi, ma per altri versi rafforzato, dalla pandemia), può far bene rivisitare un saggio dello psicanalista Claudio Risé del 2004 intitolato: Felicità è donarsi. Contro la cultura del narcisismo e per la scoperta dell’altro.

L’autore muove delle precise accuse all’odierna cultura occidentale, malata d’ipertrofia dell’Ego, profilando tuttavia anche le possibili vie d’uscita dalle sabbie mobili della mentalità tardomoderna, nella riscoperta dell’altro e del dono, da accogliere e da fare; nell’accettazione del limite, in particolare del limite estremo che è la morte; e nell’educazione dei giovani ai quali dovremmo ridonare soprattutto coraggio e lealtà.

«Viviamo, si dice, nell’epoca del narcisismo. E il povero Narciso, si sa, era soprattutto un terribile egoista. Ciò che lo appassionava era soprattutto se stesso, anzi la propria immagine, che contemplava, innamorato, riflessa nell’acqua (…). Sappiamo come finì: con un annegamento. Le immagini, infatti, non si lasciano afferrare, e dietro quell’apparenza di un attraente Ego, non c’è proprio nulla». È inquietante, secondo Risé, che oggi al culto di sé si dedichino tante pubblicazioni e trasmissioni televisive: un coro rumoroso che incita a preoccuparsi del proprio Ego, della sua immagine, delle sue paturnie, ansie e velleità. «L’intenzione è quella tipica delle epoche di malessere: star bene. Siccome l’individuo avverte di non sentirsi benissimo, gli si consiglia di occuparsi sempre più di sé, dei suoi malesseri del suo Io tumultuoso. E così il poveretto sta sempre peggio». Si alimenta in questo modo l’illusione, puntualmente frustrata, che la felicità possa consistere nel ripiegarsi su se stessi. Invece, puntualizza l’autore, la felicità e tutt’altra cosa. «Per lasciarla avvicinare, dobbiamo fare esattamente il contrario che raggomitolarci su noi stessi, nell’ossessiva difesa del nostro presunto benessere, che in realtà e un dannatissimo malessere. Dobbiamo alzare lo sguardo (…). E dopo, finalmente, guardando non verso di noi, ma davanti a noi, cercare l’altro». Una volta incontrato l’altro «finalmente possiamo e dobbiamo fare il gesto. Tendere la mano. Offrire, offrirci. Donare e donarci. È allora, e soltanto allora, che tutto può cambiare. Che la vita, quella vera, la straordinaria vita umana, può cominciare» (pp. XIII-XV).

L’argomentazione si sviluppa su una trama di carattere autobiografico nella quale l’autore evidenzia l’importanza del dono per la maturazione della persona e del suo equilibrio morale e psichico. Egli confessa di aver preso coscienza di tutto questo soprattutto mediante la felice esperienza del ricevere gratuitamente dagli altri solidarietà, amore e amicizia, nei momenti cruciali della vita.

Alla narrazione autobiografica fanno da contrappunto una serie di diagnosi negative sulla cultura del narcisismo nella quale siamo immersi. La società e gli individui sembrano oggi affetti in particolare dalla nevrosi ossessiva, freudianamente collegabile a una fissazione dell’affettività alla fase anale, «la malattia del trattenere», che si oppone alla capacità di donare. «Il mondo del non-dono, il mondo dello scambio rigidamente regolamentato (…), insomma il mondo tardomoderno, è (…) un mondo dominato dalla paura (…). La personalità ossessiva, (…) timorosa di ogni profonda intimità, non riesce ad accettare con fiducia il primo dono, quello della vita, proprio perché ha paura dell’altro, del “tu” che caratterizza la vita umana» (pp. 7-10).

Quest’avarizia spirituale risulta drammatica quando investe la sfera del sentimento che svanisce nell’erotismo postmoderno: «Il sentimento, circa il quale non viene più impartita alcuna educazione, è divenuto una sorta di fantasma inafferrabile, desiderato e continuamente sfuggente. In compenso, soprattutto dagli anni Settanta del secolo scorso in poi, al discorso amoroso viene sempre più massicciamanente sostituito quello sessuale. Fino ad arrivare a costituire quello che il grande filosofo della scienza, Michel Foucault (…) definisce: “quest’austera monarchia del sesso” che, “ironia…: ci fa credere che da essa dipenda la nostra liberazione”» (pp. 56-57).

L’avarizia di sé appare poi tragica di fronte alla percezione dell’ineluttabile transitorietà della vita, per cui s’invecchia e si muore: «L’ossessivo, e il suo fratello il narcisista, che controllano nell’ansia lo scorrere della vita, guardano con spavento all’arrivo della vecchiaia, dei nipoti, dell’essere chiamati “nonni”, tutte cose cui cercano di sfuggire in ogni modo: facendosi chiamare per nome, cancellando l’età, spianando le rughe, organizzandosi dei codini in età avanzata. Un disperato, ansioso, inutile lavorio, per negare la realtà: è arrivata la vecchiaia», il cui «sviluppo, fino alla morte, è la peggiore smentita alla società del narcisismo» (pp. 93-94).

Secondo Risé, invece – ed questo uno dei messaggi più stimolanti del libro – la vecchiaia e la morte andrebbero viste in una luce positiva. «Questa morte temuta perché svelatrice della menzogna narcisistica, e dell’onnipotenza ossessiva, è in realtà una dignitosa signora, resa affascinante dalla patina del tempo passato, che avanza lentamente, con in mano una cornucopia piena di doni». La morte, «tappa finale del viaggio, come ogni meta ci aiuta a cercare il senso del percorso che abbiamo fatto, e che andremo a terminare. E in questo modo ci costringe a dare un significato alla vita che rischia invece di rimanerne priva, fino a quando restiamo nella necessariamente inconsapevole giovinezza (dove la fine ancora non si intravede), o nel penoso tentativo di prolungare quella giovinezza all’infinito» (pp. 94-95).

La forza positiva della morte sta comunque soprattutto nel coraggio di trascendersi che essa dona a chi la sa accettare. L’individuo rinunciando alla propria presunta assolutezza è liberato dal solipsismo e diventa capace di farsi da parte per fare «largo ai giovani», spazio all’avvicendamento delle generazioni, al rinnovarsi dell’umanità e, al tempo stesso, percepisce di entrare a far parte di una comunità più grande (la morte, diceva Paolo VI, è un progresso nella comunione dei santi).

L’accettazione della vecchia e quindi della morte, della propria provvisorietà sulla scena di questo mondo, è probabilmente una delle condizioni ineludibili per collocarsi di fronte ai giovani in qualità di educatori, testimoniando loro valori e virtù.

A 17 anni dalla sua pubblicazione il libro di Risé, appare più che mai attuale e coglie molte direzioni giuste per riflettere criticamente sulla nostra società e sui suoi mali, nella ricerca di un cambiamento. Certo, i mali sono diagnosticati con chiarezza e lucidità, le terapie invece sono soltanto evocate. Si tratta, in ultima analisi, non di una presentazione di possibili soluzioni, ma di un appello a mettersi in gioco nella speranza che, dal male del narcisismo, possiamo guarire noi e, nonostante tutto, anche la nostra cultura.

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