di Carlo Parenti • Grazie ad un recente lungo colloquio con don Corso Guicciardini [Don Corso Guicciardini, Passare dalla cruna dell’ago. Un colloquio su storia e futuro dell’Opera Madonnina del Grappa, Prefazioni di Gualtiero Bassetti e Giuseppe Betori, Gabrielli Editori, 2018] ho “scoperto” un Istituto religioso che già nel 1880 anticipò la pastorale di Papa Francesco verso i poveri e gli scarti di una umanità vulnerabile.
L’Istituto del Prado è un istituto secolare maschile di diritto pontificio, cioè riconosciuto dalla Santa Sede. Venne fondato da Antoine Chevrier (1826-1879), vicario parrocchiale di Sant’Andrea della Guillottière – una zona industriale malfamata alla periferia di Lione – rimasto profondamente colpito dalla condizione di miseria della popolazione. Formò così dei sacerdoti specializzati nel servizio ai poveri, ai peccatori, agli ignoranti e nell’assistenza morale e materiale alla gioventù operaia (i preti del Prado sono oggi circa 1200, sparsi in circa 40 paesi. Un centinaio sono in Italia. La maggioranza è in parrocchia, specie in quartieri di periferia delle grandi città e zone rurali molto povere del terzo mondo). La sua esperienza spirituale fu centrata sul “seguire Gesù Cristo più da vicino” allo scopo di “lavorare più efficacemente alla salvezza delle anime”. Chevrier fu un mistico, cioè persona che, come insegnano i maestri di vita spirituale, ha imparato a “trovare Dio in tutte le cose”. La parola chiave del Prado può essere espressa con una frase: “conversione permanente”. La spiritualità pradosiana è concentrata nella consapevolezza che “il prete è uomo spogliato, crocifisso, mangiato” in prospettiva apostolica. Un pensiero di mons. Ancel (1898- 1984 ),collaboratore di Chevrier e suo successore e poi vescovo-operaio a Lione, è attualissimo: «Credere che la conversione personale senza il cambiamento delle strutture sia sufficiente, è puro idealismo; credere che il cambiamento delle strutture senza la conversione personale sia sufficiente, è puro materialismo». [Oggi in Italia il presidente della CEI, card. Bassetti, nell’invitare all’impegno politico così sintetizza: “i cattolici non si dividano tra quelli della morale e quelli del sociale”]. Padre Chevrier è stato proclamato beato da papa Giovanni Paolo II nel 1986. Alla sua morte aveva intorno a se solo 4 sacerdoti, ancora molto inesperti. Il sacerdote che gli succedette aveva 27 anni. Gli sviluppi molto belli del Prado datano dopo 20 anni dalla morte di Chevrier.
E’ poco noto l’interesse di don Giulio Facibeni per il Prado. Don Corso Guicciardini ricorda: “Il Padre si preoccupava che l’opera Madonnina del Grappa fosse una comunità religiosa. Sia di sacerdoti – presbiteriale –, sia di donne – suore –, ma anche di laici consacrati – uomini e donne. Nella sua ricerca di un istituto religioso che avesse questi tre rami, non due – suore e preti –, ma anche laici, scrisse a Lione alla sede del Prado e questi gli mandarono tre libretti di Alfred Ancel, famoso per esser diventato vescovo-operaio”. La sua abitazione era all’estrema periferia di Lione, contigua ad altre altrettanto misere, dove vivevano soprattutto gli immigrati algerini in situazione di grande povertà. Tutti condividevano una sola latrina nel cortile comune. Ogni mattina il Vescovo prendeva un secchio e una scopa e vi andava a far pulizia. Ancel contribuirà al Concilio con suo costante riferimento alla Chiesa povera per evangelizzare i poveri. Fin dall’inizio, con altri vescovi, partecipò agli incontri animati dal card. Lercaro che indicavano nella Chiesa povera, non tanto un’opzione preferenziale per i poveri, ma un modo di vivere la fraternità umana. Gli interventi di Ancel al Concilio furono in tutto 22, di cui 13 orali. Il suo lavoro si concentrò sul famoso schema 13 della “Gaudium et spes”. Ancel fu nominato vicepresidente della commissione della “Gaudium et spes”, risultandone l’effettivo presidente a causa della malattia di mons. Guano.
Sorprendenti sono le affinità tra Facibeni –che incontrò con don Corso padre Ancel- e Chevrier [ Vedi: Silvano Nistri, Vita di don Giulio Facibeni, Firenze, Libreria Editrice Fiorentina, 1979, pp.475-478]: «Ambedue parroci, ambedue ‘amici della povera gente’, sensibili ai problemi delle periferie urbane e delle masse scristianizzate, ambedue cercano confratelli di buona volontà per associarli a sé e vivere insieme la stessa vita di povertà e di sacrificio per un apostolato missionario senza che si faccia molto credito sulle loro capacità di fondatori; ambedue sono stati privati della parrocchia e considerano questa privazione, non solo una delle più grandi croci della loro vita, ma la perdita del campo di sperimentazione per il loro metodo di apostolato. […]»; «L’opera del Prado – era solito dire il P. Chevrier con un linguaggio che non poteva lasciare insensibile don Giulio Facibeni – è l’opera del buon dio; credetelo. Avrà delle vicissitudini. È una quercia piantata nel terreno incolto. I frutti verranno con difficoltà. Ma siatene certi: essa non perirà».
Da sottolineare che don Corso –successore di Facibeni- fu nominato Assistente Spirituale dei seminaristi del Prado su indicazione fatta da Padre Bortolon a Mons. Ansel che approvò la nomina.
Uno spirito, quello del Prado, condiviso dunque da don Facibeni, che con il padre Chevrier ripete: “Conoscere Gesù Cristo è tutto, il resto è niente!». Era il suo desiderio, il suo proposito poter dire con l’apostolo Paolo: «Noi non annunciamo noi stessi, ma Cristo, Gesù, Signore. Siamo vostri servitori anche se abbiamo questi tesori in vasi di creta, perché appaia che questa straordinaria potenza appartiene a Dio e non viene da noi”» (2 Cor 4 e 7).
Vi sono indubbie similitudini o assonanze -nella pastorale di questi due sacerdoti- con le parole di papa Francesco, che parla degli ultimi, degli scarti, della Chiesa che deve andare nelle periferie dell’umanità ed essere un ospedale da campo.
In particolare nel il testamento spirituale di don Facibeni si dice che l’opera Madonnina del Grappa è per «i più miseri e i più abbandonati e la sua missione la deve svolgere negli ambienti più torbidi, più fangosi, più desolati». Inoltre precisa: «L’opera non deve restringersi alla casa degli orfani, ma deve compiere un apostolato di verità e di bontà nelle masse più lontane da Cristo; nelle periferie della città, nei grandi sobborghi. Vi sono tante miserie materiali e morali! Vi sono tante anime… per le quali Cristo è lo sconosciuto». Continua il Padre: «L’opera umilmente e tenacemente, con l’esempio soprattutto dei suoi membri, deve far sentire praticamente il Vangelo. I membri […] dovranno essere pronti ad andare negli ambienti dove si lavora e si soffre senza dignità e senza speranza, per potere con la loro inestinguibile carità risuscitare in essi il sentimento della dignità umana e cristiana».
Padre Chevrier e don Giulio Facibeni: uomini che per tutta la vita hanno inseguito l’annientamento del proprio io nella carità e nella misericordia. Ma questa rinuncia ha generato «fatti e non parole» per tante «povere creature» che soffrivano la «miseria e l’abbandono». Davvero gli «scarti». Papa Francesco nell’Esortazione Gaudete et Exsultate, sulla chiamata alla santità nel mondo contemporaneo, indica un percorso del quale l’esperienza di “carità” di questi due sacerdoti è un esempio luminoso.