Andare e inculturarsi. Il recente discorso del papa ai catechisti

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di Francesco Vermigli · Il 17 settembre scorso, nella Sala Clementina il papa ha tenuto un discorso ai partecipanti all’incontro promosso dal Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione dal titolo Catechesi e catechisti per la nuova evangelizzazione. L’incontro era destinato alla verifica della ricezione che il nuovo Direttorio per la catechesi ha avuto in quest’ultimo anno: cioè dal momento della sua pubblicazione, avvenuta a cura dello stesso Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione. Il discorso che intendiamo presentare è un discorso breve, ma denso, nel quale papa Francesco ha proposto i passaggi fondamentali per un ministero catechistico all’altezza dei tempi.

Dopo i saluti di rito, papa Francesco ha preso spunto da un brano evangelico (Mt 26,17-19) che si colloca nel contesto dell’ultima cena; nel contesto cioè dei giorni della consumazione della nostra salvezza. In modo particolare l’attenzione del papa si appunta sulla risposta di Gesù alla domanda su quale luogo intendesse scegliere per mangiare la Pasqua ebraica: «Andate in città» (Mt 26,18) sono le parole di Gesù.

Analogamente, dice il papa, deve accadere per coloro che sono impegnati nella catechesi: per coloro cioè che hanno il compito di trasmettere la Parola e di farla risuonare; significato che – come ben si sa – sta sotto il termine “catechesi”. La catechesi – così intesa, alla luce di quell’invito di Gesù ai suoi discepoli – è pensata innanzitutto come incontro con le persone che vivono la nostra epoca, le nostre città, i nostri quartieri. La catechesi, pensata in questi termini, implica una capacità di intercettare le richieste più profonde delle persone che si incontrano; abbandonando ogni trasmissione concettualistica e astratta della fede «come fossero formule di matematica o di chimica». Piuttosto, dice il papa «dobbiamo insistere per indicare il cuore della catechesi: Gesù Cristo risorto ti ama e non ti abbandona mai!». E a partire da queste parole appare con chiarezza quale sia l’altro corollario dell’invito ad andare nella città, cioè nelle realtà le più quotidiane, ai crocicchi delle strade; per usare un’immagine cara allo stesso papa Francesco: l’altro corollario dell’andare è l’annuncio. Si direbbe: andare tra gli uomini per incontrarli e annunciar loro.

Ma annunciare che cosa? Il Vangelo della salvezza, la Parola della misericordia, la Buona notizia. In altri termini viene ribadita quella dimensione kerigmatica della catechesi, che lo stesso Direttorio dello scorso anno aveva notato dover essere alla base di ogni possibile catechesi; quasi fosse la sua natura più intima, ciò che essa non può mai abbandonare. Lo notavamo in un articolo pubblicato in questa stessa rivista online a pochissimi giorni dalla pubblicazione del medesimo Direttorio (vedi). Anche là, cioè, notavamo quanto il cuore della catechesi, la parte più radicale e intima della trasmissione della fede consista proprio in questa capacità di raccontare la salvezza, di far sentire agli uomini di ogni luogo e di ogni età il sapore di Cristo (cf. 2Cor 2,15), far gustare a tutti quanto è buono il Signore (cf. Sal 34,9).

C’è però un altro tema prevalente nel discorso del papa; oltre a quello dell’“andare” e dei suoi corollari (incontro e annuncio). È il tema dell’inculturazione: «I grandi santi evangelizzatori, come Cirillo e Metodio, come Bonifacio, sono stati creativi, con la creatività dello Spirito Santo. Hanno aperto nuove strade, inventato nuovi linguaggi, nuovi “alfabeti”, per trasmettere il Vangelo, per l’inculturazione della fede». Non v’è dubbio che il tema sia stato sollecitato dalla felice coincidenza del discorso che il papa ha tenuto ai catechisti, con il viaggio apostolico che egli ha compiuto nei giorni immediatamente precedenti in Ungheria e Slovacchia.

In effetti il discorso del 17 settembre rimanda in un luogo a quello tenuto lunedì 13 settembre nella Cattedrale di Bratislava, in occasione dell’incontro con vescovi, sacerdoti, religiosi, religiose, seminaristi e catechisti. Rimanda cioè ad un incontro tenuto in quella zona dell’Europa che ha conosciuto in una maniera singolarissima la necessità dell’inculturazione di fronte all’incontro con popolazioni prima germaniche (Wynfrith / Bonifacio), poi ugro-finniche (Stefano d’Ungheria), quindi slave (Cirillo e Metodio). A ben vedere questa seconda tematica – l’appello che il papa fa ad una catechesi capace di inculturarsi nelle realtà dei popoli, nel loro vissuto, l’invito a parlare la loro stessa lingua esistenziale – richiama un altro memorabile discorso del papa, tenuto all’inizio di quest’anno ai partecipanti ad un incontro promosso dall’Ufficio Catechistico Nazionale. Là il papa aveva ricordato come la catechesi sia da dirsi “in dialetto”, perché essa deve parlare le parole più comuni e abituali della vita. La fede infatti si trasmette in dialetto.

In fondo, si tratta dello stesso appello del papa di cui sopra: il catechista deve andare e mostrare di saper ascoltare la vita che incontra; perché usando le parole della vita possa mantenere viva la trasmissione della fede.

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Francesco Vermigli

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