Perché il Manzoni nella penitenza.

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di Carlo Nardi · Del Manzoni quanto mai proficuo un suo scritto. Penso alle Osservazioni sulla morale cattolica (1818) e in particolare ad alcuni passi: Spirito me effetti delle forme imposte alla penitenza (capitolo VIII, parte III).

«Quali sono poi finalmente queste forme penitenziali? La confessione delle colpe, per dare al sacerdote la cognizione dell’animo del peccatore, senza la quale è impossibile ch’egli eserciti la sua autorità; l’imposizione delle opere di soddisfazione; la formula dell’assoluzione. Io non mi propongo di fare l’apologia; giacché cosa può mai trovarsi a ridire in esse, che non sono altro che il mezzo più semplice, più indispensabile, più conforme all’istituzione evangelica, per applicate la misericordia di Dio, e il Sangue della propiziazione? Farò bensì osservare, non già tutti gli effetti di questa istituzione divina (rimettendomi alle molte opere apologetiche che ne ragionano, e alle lodi che ha avute anche da molti di quelli che non l’hanno conservata), farò osservare principalmente quegli effetti che sono in relazione col ritorno alla virtù per i traviati, e col mantenimento della virtù ne’ giusti.

L’uomo caduto nella colpa ha pur troppo una tendenza a persisterci; e l’essere privato del testimonio della bona coscienza l’affigge senza miglioralo. Anzi è una cosa riconosciuta, che il reo aggiunge spesso colpa a colpa, per estinguere il rimorso; simile a coloro che, nella perturbazione e nel terrore dell’incendio, buttano nelle fiamme ciò che vien loro alle mani, come per soffogarle. Il rimorso, quel sentimento che la religione con le sue speranze fa diventar contrizione, e che è tanto fecondo in sua mano, è per lo più o sterile o dannoso senza di essa. Il reo sente nella sua coscienza quella voce terribile: non sei più innocente; e quell’altra più terribile ancora: non potrai esserlo più; e riguardando la virtù come una cosa perduta, sforza l’intelletto a persuadersi che ne può far di meno, che è un nome, che gli uomini l’esaltano perché la trovano utile negli altri, o perché la venerano per pregiudizio; cerca di tenere il core occupato con sentimenti viziosi che lo rassicurino, perché i virtuosi sono un tormento per lui. Ma per lo più quelli che vanno dicendo a sé stessi che la virtù è un nome vano, noi ne sono veramente persuasi: se una voce interna annunziasse loro autorevolmente, che possono riconquistarla, la crederebbero una verità, o, per dir meglio, confesserebbero a sé stessi d’averla, in fondo, creduta sempre tale. Questo fa la religione in chi vuole ascoltarla: essa parla in nome d’un Dio che ha promesso di buttarsi dietro le spalle le iniquità del pentito: essa promette il perdono, e offre il mezzo di scontare il prezzo del peccato. Mistero di speranza e di misericordia! mistero che la ragione non può penetrare, ma che tutta la occupa nell’ammirarlo; mistero che, nell’inestimabilità del prezzo della redenzione, dà un’idea infinita e dell’ingiustizia del peccato e del mezzo d’espiarlo, un’immensa ragione di pentimento, e un’immensa ragione di fiducia.

Ma la religione non fa solamente questo; essa rimove anche gli altri ostacoli che gli uomini oppongono al ritorno alla virtù. Il reo sfugge la società di quelli che non lo somigliano, perché li teme superbi della loro virtù: aprirà egli il suo core a loro, che ne profitteranno per fargli sentite che sono da più di lui? Che consolazione gli daranno essi, che non possono restituirgli la giustizia? Essi che stanno lontani da lui, per parere incontaminati? Che parlano di lui con disprezzo, perché si veda sempre più che disprezzano il vizio? Essi che lo sforzano così a cercare la compagnia di quelli che sono colpevoli come lui, e che hanno le stesse ragioni per ridersi della virtù? La giustizia umana ha pur troppo con sé l’orgoglio del Fariseo che si paragona col Pubblicano, che prende un posto lontano da lui; che non s’immagina che quello possa diventare un suo pari; che, se potesse, lo terrebbe sempre nell’abiezione del peccato.

Ma questa divina religione d’amore e di perdono ha istituiti de’ conciliatori tra Dio e l’uomo. Li vuole puri, perché la loro vita accresca autorità alle loro parole, perché il peccatore, con l’accostarsi a loro, si senta ritornato nella compagnia de’ virtuosi; ma li vuole umili, e perché possano esser puri, e perché quello possa ricorrere a loro, senza temere d’esserne respinto. Egli s’avvicina senza ribrezzo a un uomo che confessa d’esser peccatore anche lui, a un uomo che, dal sentire le di lui colpe, ricava anzi fiducia che chi le rivela sia caro a Dio, e venera nel ravveduto la grazia di Colui che richiama a sé i cori; a un uomo che riguarda in quello che gli sta a’ piedi la pecora cercata e portata sulle spalle del pastore, l’oggetto della gioia del cielo; a un uomo che tocca le sue piaghe con compassione e con rispetto, che le vede già coperte di quel Sangue che invocherà sopra di esse. Sapienza mirabile della religione di Cristo! Essa impone al penitente dell’opere di soddisfazione, che diventano per lui un testimonio consolante del suo cambiamento, e con le quali si rinfranca nell’abitudini virtuose e nella vittoria di sé stesso; con le quali mantiene la carità, e compensa, in certa maniera, il mal fatto. Perché, non solo la religione non gli accorda il perdono, se non a condizione che ripari, potendo, i danni fatti al prossimo; ma, per ogni sorte di colpe, lo assoggetta alla penitenza, la quale non è altro che l’aumento di tutte le virtù, e quella che fa dell’offensore di Dio un ministro umile e volontario della sua giustizia. Essa prescrive a’ suoi ministri, che s’assicurino il più che possono della realtà del pentimento e del proposito; indagine che tende, non solo a impedire che s’incoraggisca il vizio con la facilità del perdono, ma a dare una più consolante fiducia all’uomo che è pentito davvero: tutto è sollecitudine di perfezione e di misericordia. E i ministri che riconciliassero leggermente chi non fosse realmente mutato, essa li minaccia che, in vece di scioglierlo, saranno legati essi medesimi; tanta è la sua cura perché l’uomo non cambi in veleno i rimedi pietosi che Dio ha dati alla nostra debolezza.

Chi, con queste disposizioni, è ammesso alla penitenza, è certamente nella strada della virtù; chi s’è sentito dire dal ministro del Signore, che è assolto, si trova come ristabilito nel retaggio dell’innocenza, e principia di novo a battere questa strada con alacrità, con tanto più di fervore quanto più si rammenta che frutti amari ha colti in quella del vizio, quanto più sente che gli atti e i sentimenti virtuosi sono i mezzi che la religione gli presenta per crescere nella fiducia che le sue tracce su quella trista strada siano cancellate.

La religione ha ricevuto dalla società un vizioso, e le restituisce un giusto: essa sola poteva fare un tal cambio. Chi avrebbe tentato, chi avrebbe pensato d’istituire de’ ministri per aspettare il peccatore, per invitarlo, per insegnar la virtù, per richiamare a quella chi ricorre a loro, per parlargli con quella sincerità che non si trova nel mondo, per metterlo in guardia contro ogni illusione, per consolarlo a misura che diventa migliore?»

Nelle Osservazioni mi piace rivedere alcuni grandi scritti dell’oratoriano Jean-Baptiste Massillon, il gesuita Louis Bourdaloue predicatore, Biagio Pascal con i sui Pensieri, Pierre Nicole teologo giansenista (cf. 1267). Così il Manzoni ci dice della penitenza. Ma come non pensare al grandissimo Agostino? E anche a un pensoso Mario Soldati in Colazione a Port-Royal ne La Messa dei villeggianti

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