«Non c’è autorità se non da Dio» (Rm 13, 1). L’autorità è connaturale per la società e la promozione del bene comune

299 168 Francesco Romano
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di Francesco Romano • Non di rado suscita perplessità la frase strettamente estrapolata dalla Lettera ai Romani di San Paolo dove è detto “chi si oppone all’autorità, si oppone all’ordine stabilito da Dio” (Rm. 13, 2). Infatti ognuno potrebbe osservare che tanti misfatti vengono commessi anche dall’autorità costituita, sia in ambito civile che religioso, o da un certo tipo di regime politico per cui sorge il conflitto che leggiamo negli Atti degli Apostoli: “Ma Pietro e gli altri apostoli risposero: bisogna obbedire a Dio anziché agli uomini” (At 5, 29).

La Chiesa è costituita e organizzata come società. In essa sono presenti anche gli istituti di vita consacrata che partecipano dei suoi elementi strutturali e costitutivi, considerati nella duplice natura carismatica e istituzionale. Il voto di obbedienza professato dagli ascritti fa sentire maggiormente il peso che ha il superiore qualora arrivasse a esercitare in modo non esemplare una forma di comando sui “sudditi” in contraddizione con le finalità che dovrebbe perseguire l’autorità. Per la rilevanza di diritto pubblico la Chiesa provvede con il proprio ordinamento giuridico all’organizzazione comunitaria degli istituti di vita consacrata. La loro partecipazione alla stessa natura strutturale della Chiesa richiede, inoltre, che gli istituti di vita consacrata siano retti da una specifica potestà ecclesiastica di governo. Nella vita degli istituti religiosi il processo associativo è una intrinseca esigenza. La legittima autorità è quindi assolutamente necessaria come elemento formale che la struttura e la organizza.

Come nella Chiesa, anche negli istituti di vita consacrata la potestà non è di ordine naturale, ma viene conferita sacramentalmente da Cristo attraverso il battesimo e l’ordine sacro. L’ufficio di superiore, come ogni altro ufficio (cf. can. 274), necessita della potestà sacra per poter essere esercitato. Essa è unica nella sua realtà ontologica, ma articolabile in potestas sanctificandi, docendi, regendi in ragione del suo esercizio richiesto dall’ufficio. Soltanto i chierici sono abilitati a ottenere uffici per il cui esercizio si richiede la potestà ecclesiastico di governo (can. 129 §1).

Il laico entra a far parte della dimensione sociale della Chiesa con il battesimo che lo costituisce “persona” in senso giuridico (cf. can. 96), con gli obblighi e i diritti che sono propri dei cristiani. Nell’esercizio della stessa potestà che hanno i chierici di reggere e guidare socialmente i fedeli, possono essere chiamati anche i laici a titolo di cooperazione (can. 129 §2). L’habilitas dei laici a cooperare ha la sua radice nel battesimo. Dalla gerarchia vi sono chiamati perché ne sono sacramentalmente capaci, e non viceversa.

Gli istituti di vita consacrata si distinguono in clericali e laicali, religiosi e secolari, di diritto pontificio e di diritto diocesano. Da questa specifica identità degli istituti di vita consacrata dipende la differente partecipazione dei superiori alla potestà di governo secondo il can. 596 §§1-3.

Dal confronto tra il can. 501 §1 del Codex 1917 e il can. 596 §1 del Codex 1983 si nota che nella legislazione vigente è scomparsa quella potestà qualificata come “dominativa”, ovvero quella potestà paterna che esercitava lo ius corrigendi, come ad esempio la verberatio, l’esercizio dei poteri sanzionatori all’interno della famiglia.

Il concetto di potestà dominativa nell’ambito della vita consacrata ha conosciuto una evoluzione passando dal suo iniziale significato di acquisizione possessoria del suddito che emetteva la professione solenne in un Ordine, dove i superiori esercitavano la potestà di governo indipendentemente dal loro stato laicale o clericale, per giungere alla codificazione del 1917 dove la potestà ecclesiastica di governo veniva riservata solo alle Religioni clericali di diritto pontificio esenti. La potestà dominativa veniva esercitata dai superiori di Religioni sia clericali che laicali, di diritto diocesano o di diritto pontificio non esenti, ai quali si aggiunsero nel 1947 gli istituti secolari sia di diritto pontificio che di diritto diocesano.

Potremmo porci la domanda sul senso del cambiamento introdotto con il Codex 1983 e se la scomparsa della potestà qualificata come “dominativa” risponda a una profonda riflessione teologica e giuridica iniziata già con la promulgazione del primo Codex. Tra i vari interrogativi sollevati dagli Autori vi era la questione di come conciliare la potestà dominativa, di natura privatistica, con la natura degli istituti di vita consacrata, propria del diritto pubblico della Chiesa. Inoltre, gli Autori si domandavano quale fosse l’estensione della potestà dominativa rispetto alla normativa che regola la potestà di giurisdizione. Il contributo dell’illustre giurista claretiano Card. Larraona ha rappresentato la novità nel superamento del concetto di potestà dominativa privata, introducendo la distinzione tra potestas stricte publica e potestas dominativa publica detta anche imperfecta seu inchoata.
A rafforzare questa linea va ricordato il can. 305 del Codex Iuris Canonici Orientalis promulgato da Pio XII il 9 II 1952; la risposta del 26 III 1952 data dalla Pontificia Commissione per l’Interpretazione Autentica del CIC con cui estende alla potestà dominativa i cann. 197, 199, 206-209 (Codex 1917) sulla potestà di giurisdizione; l’allocuzione Haud mediocri dell’11 XI 1958 di Pio XII ai Superiori generali.

Con la promulgazione del nuovo Codex il problema dibattuto tra gli studiosi verte sulla natura della potestà comune a tutti gli istituti di vita consacrata (can. 596 §1) e sull’eventuale distinzione ontologica rispetto alla potestà negli istituti religiosi clericali di diritto pontificio (can. 596 §2).

Tra gli studiosi in questo ambito emerge Anastasio Gutierrez che, esclusa la distinzione di natura ontologica tra la potestà indicata dai due paragrafi del can. 596, individua una differenza solo di tipo quantitativo – perché unica è nella Chiesa la potestà ecclesiastica di governo che Cristo le partecipa – limitatamente ai canoni sulla potestà di regime esecutiva per il foro esterno indicati dal can. 596 §3.

Andrea Boni, accogliendo la posizione dottrinale del Gutierrez, sostiene la distinzione meramente quantitativa tra i §§1 e 2 del can. 596. Alla potestà di governo esecutiva del can. 596 §1 sono abili tutti i superiori, indipendentemente dalla loro condizione laicale o clericale, in quanto svolgono questo ufficio in chiave di cooperazione (129 §2) con la gerarchia ecclesiastica. La statura teologico-giuridica che conferisce al christifidelis il battesimo lo abilita alla cooperazione con i chierici nell’esercizio della potestà sacra di governo della Chiesa.

Su questa linea è anche Umberto Betti che vede nel battesimo la radice della possibilità della partecipazione dei laici all’esercizio della potestà di giurisdizione. Per questo il Betti fa leva sulla risposta della Congregazione per la Dottrina della Fede del 15 dicembre 1976 che introduce la categoria di uffici intrinsecamente gerarchici per indicare l’ambito specifico dell’esercizio della potestà sacra la cui habilitas è collegata alla ricezione dell’ordine sacro. Di conseguenza, per il Betti, esistono anche uffici estrinsecamente gerarchici ai quali possono accedere i laici in forza del loro battesimo, insieme e in dipendenza dalla gerarchia. Il battesimo è la scaturigine della capacità ontologica dei poteri annessi a tali uffici. L’assunzione dei laici da parte dei ministri ordinati conferisce la legittimazione al suo ordinato esercizio.

Anche Domingo Andrés, converge sulla linea del Gutierrez e del Boni, circa la natura e l’estensione della potestà del can. 596. La potestà del can. 596 §1, comune a tutti gli istituti di vita consacrata senza distinzioni, detta anche “ex dominativa”, si tratta per l’Andrés, di una potestà non identificabile né con la potestà di giurisdizione né con la potestà privata, non radicata esclusivamente né esaustivamente nel voto di obbedienza.

La soluzione che l’Andrés offre al duplice ambito di potestà del can. 596 si orienta su una distinzione di tipo “quantitativo”. La potestà dei superiori contemplati dal can. 596 §1, rispetto alla potestà di giurisdizione dei superiori indicati dal can. 596 §2, si spiega con la possibilità dei laici di cooperare all’esercizio della potestà ecclesiastica di governo (can. 129 §2)

Senza ombra di dubbio possiamo concludere che nell’ambito della vita consacrata la potestà di santificare, istruire e governare è sempre stata esercitata dai superiori, non solo chierici, ma anche laici, appartenenti a Religioni esenti o non esenti. Il fondamento si trova nell’origine della potestà sacra che, provenendo solo da Cristo, viene trasmessa dalla Chiesa a tutti coloro che sono investiti nell’ambito del suo ordinamento giuridico della responsabilità di condurre le anime al conseguimento della carità perfetta. Da qui è derivato il senso e l’urgenza nel Codex 1983 di depurare il concetto di potestà sacra dal concetto naturalistico di potestà “dominativa”. Essere christifidelis è il presupposto necessario per essere chiamati a svolgere alcuni uffici in funzione di “cooperazione” cum clericis. Il Legislatore ha continuato a riconoscere ai superiori, anche se non appartenenti a istituti religiosi clericali di diritto pontificio, pertanto privi della potestà ecclesiastica di governo, ambiti che sono propri della potestà di governo, soprattutto esecutiva, definita dal diritto universale e dalle costituzioni.

Queste considerazioni, astrattamente contenute nella formulazione del can. 129 §§1-2, esplicitano l’unità della natura ontologica della potestà di governo nella Chiesa. Tutta la Chiesa, nelle singole sue componenti, deve essere retta da un’unica potestà di origine soprannaturale. In tal modo, lo stato di vita battesimale come quello clericale – fatto salvo il netto discrimine segnato dalla potestà di ordine – si distingue per il diverso grado di partecipazione alla potestà di governo e non per la differente natura ontologica di essa.

L’enciclica di Papa Giovanni XXIII “Pacem in terris” (n. 26) ricorre al commento di S. Giovanni Crisostomo per spiegare le parole di S. Paolo “non vi è infatti autorità se non da Dio” e per avvalorare la presenza dell’autorità che ordini in modo fecondo la convivenza fra gli esseri umani: “Che dici? Forse ogni singolo governante è costituito da Dio? No, non dico questo: qui non si tratta infatti di singoli governanti, ma del governare in se stesso. Ora il fatto che esista l’autorità e che vi sia chi comanda e chi obbedisce, non proviene dal caso, ma da una disposizione della Provvidenza divina. Iddio, infatti, ha creato gli esseri umani sociali per natura; e poiché non vi può essere “società che si sostenga, se non c’è chi sovrasti gli altri, muovendo ognuno con efficacia ed unità di mezzi verso un fine comune, ne segue che alla convivenza civile è indispensabile l’autorità che regga; la quale, non altrimenti che la società, è da natura, e perciò stesso viene da Dio”.

Sebbene l’autorità venga da Dio e “nulla potestas nisi a Deo” (Rm 13, 1), non si può ugualmente dire che quel particolare regime o quel certo superiore che guida una comunità civile o religiosa siano voluti da Dio. Tutt’altro. Quando i comandi sono legittimi e leciti, allora obbedire all’autorità equivale in definitiva a obbedire a Dio, ma se sono iniqui non possono essere attribuiti a Dio. Con queste parole infatti il giovane Maccabeo parlava mentre si consegnava, esortato dalla madre, nelle mani del carnefice: “Non obbedisco al comando del re, ma ascolto la legge che è stata data ai nostri padri per mezzo di Mosè” (2 Mac 7, 30).

Il compito dell’autorità, conformemente al suo significato etimologico espresso dal verbo “augere”, accrescere, è di promuovere il bene comune nel quale rientra anche quello personale.

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Francesco Romano

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