A proposito dell’educazione della coscienza, due illuminanti riflessioni di J. Ratzinger e K. Demmer

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di Gianni Cioli · «Il diritto-dovere di seguire la coscienza presuppone il diritto-dovere di cercare la verità. Il diritto della coscienza è infatti strettamente collegato al dovere di formare la coscienza. E’ un impegno che dura tutta la vita» (A. Lorenzetti, La morale. Risposta alle domande più provocatorie, Cinisello Balsamo 1998, 87). Nessuno può andare contro la propria convinzione, ma ognuno deve anche esaminarne la fondatezza.

A proposito dell’educazione della coscienza può essere significativo quanto affermato in una conferenza della fine degli anni ottanta dall’allora Card. Ratzinger:

«Perché parliamo? Parliamo perché abbiamo imparato a parlare dai nostri genitori. Parliamo la lingua che essi ci hanno insegnato, anche se sappiamo che esistono altre lingue che siamo incapaci di parlare o comprendere. Chi non ha mai imparato a parlare rimane muto. Eppure la lingua non è un condiziona-mento esterno che abbiamo interiorizzato; è invece una cosa che propriamente è interna a noi. Viene formata dall’esterno, ma questa formazione risponde ad una predisposizione insita nella nostra natura, cioè alla possibilità di esprimerci con il linguaggio. L’uomo come tale è un essere parlante, ma lo diventa soltanto a condizione di imparare a parlare da altri. Incontriamo così la nozione fondamentale di quel che significa essere uomo: l’uomo è “un essere che ha bisogno dell’aiuto di altri per diventare ciò che è in se stesso” (R. Spaemann). Noi riscontriamo, ancora una volta, questa struttura antropologica fondamentale nella coscienza. L’uomo come tale è un essere che ha un organo di conoscenza interiore del bene e del male. Per diventare ciò che egli è ha tuttavia bisogno dell’aiuto degli altri. La coscienza richiede formazione ed educazione. Può diventare rachitica; può essere distrutta; può essere deformata a tal punto da riuscire a esprimersi solo a stento o in maniera distorta» (J. Ratzinger, «La controversia sulla morale. Questioni riguardanti la fondazione di valori etici», Conferenza tenuta al Policlinico Gemelli il 30 novembre 1988, in Vita e Pensiero 72[1989] n. 3, 178-179. Fa riferimento a R. Spaemann, Moralisches Grundbegriffe, München 1982, 79).

Sulla necessità di formare la coscienza appaiono inoltre particolarmente belle e illuminanti alcune considerazioni di Klaus Demmer:

«Siccome è molto facile incorrere nel pericolo dell’autoinganno, la formazione della coscienza deve insistere sulla veracità. Nella tradizione della teologia morale si parla della coscienza tenera, che si caratterizza per una specie di istinto morale, in quanto possiede la capacità di riconoscere già da lontano i pericoli e di evitarli preventivamente.
È in gioco dunque la saggezza: il saggio sa spontaneamente quali pesi può addossarsi e dove invece sono i limiti della sua forza. Questo vale anzitutto in riferimento al mondo vitale che lo circonda immediatamente, ma poi lo sguardo si allarga a sfere più ampie, alla configurazione della vita politica e sociale. La coscienza tenera riconosce i segni dei tempi: è capace di individuare emergenze morali presenti e di opporre ad esse la propria testimonianza di vita; ha il coraggio della protesta profetica ed è pronta a sacrificare per essa anche il dono della propria vita. La nostra società pluralista mostra evidenti tendenze al livellamento: c’è bisogno allora dell’outsider creativo che segua coerentemente la sua insostituibile coscienza.

La società contemporanea ha nel suo interno una molteplicità di obblighi; il cristiano non può vivere segregato per salvare la propria anima e lasciare ad altri le norme dell’agire. Invece egli è responsabile del mondo, cioè è affidata a lui la responsabilità di modellarlo, in modo speciale nell’ambito della politica e della vita sociale. Il Concilio Vaticano II parla della libertà di religione, riferendosi in primo luogo alla fede cristiana che può essere accettata solo in base ad una libera decisione di coscienza. Il cristiano deve farsi allora paladino della libertà di coscienza, altrimenti finisce per tagliare via il ramo sul quale egli stesso si sostiene. Lo Stato democratico moderno offre dei presupposti che favoriscono questo ideale, in quanto parte dalla tacita convinzione che i suoi cittadini, in coscienza, lo sostengano, acconsentendo in linea di massima alla sua costituzione e al suo ordinamento giuridico; in contraccambio lo Stato rispetta per principio la coscienza dei suoi cittadini, non aspettandosi obbedienza, come avviene nello Stato assolutistico, ma corresponsabilità, cioè la disponibilità a fare quanto è possibile per assicurare il bene comune, anche nel caso di dover andare al di là della singola lettera della legge. L’educazione alla coscienza matura deve promuovere questo atteggiamento e, partendo da questo presupposto, si può permettere anche nel caso singolo l’obiezione, che deve però conservare la pace giuridica: la libertà di coscienza non dà via libera all’arbitrarietà» (K. Demmer, Introduzione alla teologia morale, Casale Monferrato 1993, 40).

Queste ultime considerazioni di Demmer possono forse offrire spunti di riflessioni utili anche in merito al dibattito sulle restrizioni delle libertà individuali per arginare l’emergenza pandemica e, in particolare, sull’opportunità dell’imposizione della Certificazione Verde COVID-19 per alcune categorie di lavoratori e per l’accesso ai luoghi pubblici, un dibattito talora molto acceso che ha suscitato acute divisioni nell’ambito delle democrazie occidentali e della stessa comunità ecclesiale.

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