Esperanto, ovvero il sogno di una lingua universale

500 300 Francesco Vermigli
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di Francesco Vermigli · Esperanto estas la revo de universala lingvo, por paco kaj harmonio inter popoloj. Chi legge queste parole, di diverse di esse intuisce il significato; pur non conoscendo la lingua in cui questa frase è stata scritta. La cosa potrà forse sorprenderci, ma è un fatto che un italiano riesca a comprendere diverse di queste parole, pur scritte in una lingua sconosciuta.

La frase è semplicemente la traduzione in esperanto della frase italiana: “L’esperanto è il sogno di una lingua universale, per la pace e la concordia tra i popoli”. Fermiamoci su alcune parole che compongono la frase: estas è il verbo essere alla terza persona singolare ed è termine assonante con tante lingue neolatine per lo stesso verbo essere; sotto revo chi non riconosce il francese reve?; universala e lingvo sono facilmente comprensibile ad un italofono; por è tratto genericamente dalle lingue neolatine, ad indicare il complemento di fine; e se kaj non è altro che la congiunzione “e” in greco, inter è chiaramente preso dal latino; infine, paco e harmonio e popoloj sono termini che rimandano a un lessico ancora facilmente comprensibile ad un parlante in lingua neolatina, dove si riconoscono la desinenza fissa in -o tipica dei sostantivi singolari e quella in -j per i sostantivi plurali.

Ma al di là del fare pratica di traduzione in esperanto, quella frase che abbiamo tradotto in questa lingua artificiale, dell’esperanto rivela l’origine più profonda e l’obbiettivo largamente desiderato. L’esperanto (letteralmente: “colui che spera”) prende le mosse dalla ricerca di un oculista ebreo nato nella città di Białystok oggi nella Polonia nord-orientale – ma all’epoca (nel 1859) sotto il potere dell’Impero zarista – e poi trasferitosi a Varsavia, dove poi sarebbe morto nel 1917. Ci riferiamo a Ludwik Lejzer Zamenhof. Nella sua vicenda biografica si intrecciano le mille sfaccettature del giudaismo mitteleuropeo; quel giudaismo umanitarista, scientista, moderatamente sionista, lontano dalle mire del sionismo duro e puro di Theodor Herzl, che invece appariva calcato sul nazionalismo ottocentesco europeo.

L’esperanto nasce in questo contesto culturale largamente ottimista sulle possibilità della concordia tra gli uomini. L’esperanto nasce da un’affermazione di principio: i popoli sarebbero in armonia tra di loro se potessero comprendersi. La guerra e ogni tensione sorge dall’incomprensione, dal non poter parlare la stessa lingua; realizzazione nella storia del dramma di Babele. La lingua può dividere, come si sperimenta nella realtà; ma è sempre la lingua che può unire. L’intuizione di Zamenhof è che una lingua artificiale, non imposta a nessun’altra (come al contrario accade con l’inglese oggi) possa aiutare la comprensione tra i popoli, facilitare la comunicazione tra gli uomini e abbassare le tensioni e le guerre tra i singoli e tra gli Stati. Da quella affermazione di principio (una stessa lingua per l’armonia tra i popoli) discende un corollario fondamentale: che questa lingua deve essere fissa, stabile; cioè deve essere preservata dal cambiamento. Per far questo – nelle intenzioni dei padri fondatori dell’esperanto – è bene che essa non sia la prima lingua, ma la seconda lingua di un parlante, per evitare che il contatto con la realtà – come accade ad una lingua normalmente parlata – induca il cambiamento e provochi la parcellizzazione tra i parlanti, tanto da compromettere la funzione universale per cui essa è stata pensata.

C’è un sapore di ottimismo antropologico in quel contesto originario da cui è nato l’esperanto, di cui magari l’esperantista odierno non ha percezione; accontentandosi di imparare una lingua semplice nella morfologia e nella fonetica. C’è un ottimismo antropologico che – a ben vedere – appare anche un po’ ingenuo.

Inutile dirlo, ma questo desiderio di una lingua universale che possa aiutare la comprensione reciproca tra i popoli e tra le persone, rimanda ad un episodio fondamentale della nostra fede. Rimanda al momento in cui un gruppo di credenti in un uomo che era Dio, che era morto e poi risorto, mentre sono raccolti in preghiera, ricevono dall’alto la capacità di farsi comprendere dagli altri. Il brano che dice «siamo Parti, Medi, Elamiti… e li udiamo parlare nelle nostre lingue delle grandi opere di Dio» (Atti 2,9-11) è stampato nella memoria di ogni cristiano. E che cosa indica quell’episodio, cosa vuol significare quel giorno di Pentecoste, se non che il desiderio della comprensione tra i popoli finalmente si realizza?

C’è una somiglianza innegabile tra il desiderio iscritto nell’esperanto e la Pentecoste. Ma qui c’è un’intuizione ancora più profonda di quello che era alla base dell’esperanto. Qui si dice che la comprensione tra i popoli, la concordia, l’armonia, non potrà mai nascere a tavolino, ma è un dono che viene dall’alto; quella grazia che sola può sciogliere i nodi delle nostre relazioni e i nodi delle relazioni tra i popoli. C’è un sano realismo in tutto questo. Saper riconoscere che serve il dono che viene dall’alto per ottenere il miracolo della pace, è infatti il segno di un grande realismo antropologico cristiano.

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Francesco Vermigli

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