Se la politica non torna ad essere la più alta forma di Carità

191 263 Antonio Lovascio
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di Antonio Lovascio · Forse ha regione il massmediologo Aldo Grasso quando afferma che la corsa al voto del 25 settembre – dopo l’irresponsabile affondamento del Governo Draghi – assomiglia sempre più a quella del Grande Fratello. Con i Social che dettano i temi di cui parlare e le strategie dei partiti postmoderni che tendono a denigrare sempre più l’avversario più che a presentare con chiarezza programmi che affrontino realisticamente – come stava facendo l’ex presidente della Banca Centrale Europea – le gravissime emergenze che stiamo vivendo. Noi insieme a tutti gli abitanti del Pianeta, per i pesanti effetti sull’economia creati dalla pandemia, dall’invasione russa in Ucraina e dalle altre guerre combattute a pezzi.

Qui in Italia si procede a slogan, che alimentano l’emotività dei potenziali elettori per strapparne il consenso. Così fatichiamo a ricavare dalle parole dei leader, dei candidati da loro prescelti (fedelissimi paracadutati o addirittura sconosciuti) quella perfetta sintesi scandita dagli ultimi Pontefici che si sono succeduti, fino a Papa Francesco. E cioè che “la politica è la più alta forma di Carità”. Per primo l’ha coniata Pio XI parlando nel dicembre del 1927 alla FUCI, di cui era appena stato nominato assistente don Giovanni Battista Montini per una svolta di coraggioso rinnovamento nel rapporto della Chiesa con i giovani universitari, proprio negli anni del progressivo radicamento del fascismo nella nostra Penisola. E una volta divenuto Papa, Montini l’ha elaborata prima segnando tracce di impegno sociale per i laici di tutto il mondo nel Concilio Vaticano II e poi con altri documenti ed interventi specifici. Se non trova il tempo per rileggere l’enciclica “Populorum Progressio”, chi aspira ad entrare nel nostro Parlamento o nelle assemblee elettive degli altri Paesi, basterebbe si soffermasse sul discorso pronunciato da Paolo VI alla FAO il 16 novembre 1970, in cui la Carità viene appunto indicata come “motore di tutto il progresso sociale”. Un inno alla solidarietà universale che oltrepassa i dissidi, esclude l’individualismo, attesta l’inclusione. Insomma richiede a gran voce la “promozione di ogni uomo e di tutto l’uomo”. Un pensiero, quello montiniano, che attraversa il tempo per approdare in tutta la sua attualità nell’oggi messo a rischio dal populismo e dal sovranismo. Per chiedere ad ognuno di noi un aiuto per edificare il futuro dell’umanità, in un appello accorato alla fratellanza universale, seme di una pace duratura che ancora non si vede all’orizzonte di questi interminabili anni di guerra. Volutamente Bergoglio cita spesso San Paolo VI, Maestro ed educatore di una classe politica che ha contribuito a formulare e per prima applicare la nostra Costituzione (ispirata a principi di uguaglianza, umanità, libertà e democrazia) oltre ad avviare la Ricostruzione dopo il secondo conflitto mondiale. Un Papa che manifestò un’attenzione profonda verso l’uomo, e una lucida percezione della realtà mondiale. E che ebbe l’intuizione e la forza, in un contesto di difficile approccio, di delineare una nuova prospettiva di vita, nella quale si intravedeva un differente modello etico-sociale.

E’ bene ricordarlo, ora che la società che stiamo costruendo rischia di avere paura della vita e diffidare della speranza. Come ha sottolineato il presidente della CEI card. Matteo Zuppi in un editoriale su “Avvenire”, scopriamo di avere politiche da amministrazione di condominio, aspettative di vita giovanilistiche, distanze umilianti e in crescita: fra ricchi e poveri, uomini e donne, vecchi e bambini, mediatici e anonimi, onesti e furbi. Nello spaesamento dell’incertezza, cresce il fascino della chiusura in spazi ristretti e orizzonti chiusi e angusti.

L’autoreferenzialità – mette in guardia il cardinale – porta a ripiegarci su noi stessi e contagia le persone, i popoli e le culture, anche noi credenti: non di rado appariamo senza idee, senza parole, senza azioni che riaprano i cuori al senso della destinazione dell’esistenza nostra e del mondo”.

Ecco perché la politica deve tornare ad essere la più alta forma di Carità, con i leader che – anziché limitarsi a denunciarla senza proporre rimedi – facciano un “mea culpa” e trovino finalmente argomenti convincenti per frenare la diserzione dal voto dei ceti più disagiati, sempre più convinti che i partiti non li rappresentino e, quindi, dell’inutilità della loro partecipazione in presenza di un’assurda legge elettorale. Ma questa rinuncia alla fine purtroppo peserà (eccome!) sulle stesse masse popolari. Le sofferenze degli oltre 5 milioni di poveri conclamati dall’ISTAT restano in gioco. E non saranno risolte da chi ha pescato consensi nelle tensioni populiste del corpo sociale senza nemmeno sapere cosa sia la Solidarietà.

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Antonio Lovascio

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