di Francesco Vermigli · Quando troverete questo articolo pubblicato nella nostra rivista online, mancherà circa un mese a quel giorno fatidico, immortalato dalla celebre ode del Manzoni; scritta di getto in poche ore, alla notizia della morte del grande condottiero e generale. Qualche settimana ancora e saranno 200 anni da quel giorno a Sant’Elena. E – ce lo domandiamo con lo stesso don Lisander – “fu vera gloria?” Lo confessiamo: a noi, che posteri già lo siamo, ci vien meno il coraggio di rispondere a una tal domanda.
Si racconta che poche ore prima della battaglia decisiva, quella che avrebbe messo fine alla sua vita grandiosa – lasciandolo sotto osservazione di una scorta armata inglese fino alla morte, a migliaia di chilometri dalle coste francesi, nel più profondo Oceano Atlantico – fu preso da un moto di disprezzo per le doti di stratega del duca di Wellington e al mattino disse che alla sera sarebbe stato a Bruxelles. A Bruxelles non ci arrivò né quella sera né poi. E il nome di quel villaggio – alle porte meridionali della città, che oggi è città europea per eccellenza – sarà usato per antonomasia per dare un nome ad ogni disfatta: che ciò avvenga in politica, in guerra o nello sport. Poi arriverà la nostra Caporetto a condividere con Waterloo la triste nomea di luogo della sconfitta più assoluta e inappellabile. Anzi, a Waterloo di più: visto che fine fece quel gran condottiero; mentre i resti di quell’esercito che era disceso con arroganza per le valli giuliane e friulane e trentine – ce lo ricorda il Diaz – quelle stesse valli le dovette risalire in disordine e senza speranza. Ma questa è un’altra storia.
Avrà avuto ragione Napoleone nel disprezzare il generale nemico, facendo passare l’idea che in condizioni normali lo spirito del mondo – che Hegel aveva visto come incarnato a cavallo, nella figura di quel piccolo generale corso – lo avrebbe davvero portato a Bruxelles? Che sia stata una cattiva luogotenenza sul campo, che siano state le truppe fresche ma raccogliticce o che sia stato il fato, lo spirito del mondo non lo condurrà mai a Bruxelles e lo disarcionò, come i cavalli disarcionano i fantini che non riconoscono più.
Ma che spirito era lo spirito incarnato da quel fantino a cavallo? È lo spirito della modernità giacobina; anche se poi egli seppe far fuori ogni velleitarismo della purezza rivoluzionaria: e tra le mani del bonapartismo al giacobinismo accadde quel che accadde al povero Trockij, quando gli capitò di incappare nello stalinismo più ferreo e realista. Lo spirito di Napoleone è l’anima borghese e liberale della Francia che non passerà mai più, e che sopravvisse nell’epoca della Restaurazione; come siglato in quella celebre esclamazione attribuita al Guizot, con la quale si invitavano i francesi a fare della propria vita un’occasione di profitto e di crescita materiale: “Arricchitevi!”
È lo spirito della razionalità giuridica, lo spirito cioè del suo Codice civile, articolato e organizzato a disciplinare ogni ambito della vita degli uomini; ma anche lo spirito della macchina burocratica e amministrativa capillare dello Stato napoleonico. È lo spirito della fine dei privilegi sociali e fiscali dell’antico regime. È lo spirito che accetta la vita religiosa, come si accettano le cose vecchie e per quanto esse sono di nostra utilità.
Eppure quello spirito del mondo, stanco del suo mentore, lo abbandonò innanzitutto nelle sconfinate steppe sarmatiche; prima ancora che a Waterloo. Lo stratega geniale e che portava con sé lo slancio di un’intera rivoluzione, lentamente si spense prima guardando dal Cremlino le fiamme di una Mosca solo in apparenza da lui conquistata e poi nella lunghissima ritirata nel minaccioso approssimarsi dell’inverno. E ciò che sarebbe successo alle truppe dell’Asse dopo Stalingrado, accadde a Napoleone tra il gelo e le imboscate dell’esercito zarista, fino al catastrofico attraversamento della Beresina.
E allora, ce lo domandiamo ancora una volta con il Manzoni, come abbiamo fatto all’inizio: “fu vera gloria”? Le nostre incapacità e le nostre titubanze dinnanzi ad una tale domanda restano immutate. Certo noi vediamo che fu la sua vita un dramma. Come è il dramma degli uomini geniali e dei grandi. Un dramma della supponenza e dell’intelligenza, un dramma dell’onore. Il dramma dei grandi, che poi sono anche i più soli.
In una strofa della sua ode il Manzoni se lo immagina a mani incrociate a scorgere l’orizzonte al declinar del giorno, schiacciato dalla nostalgia dei ricordi: «Oh quante volte, al tacito / morir d’un giorno inerte / chinati i rai fulminei / le braccia al sen conserte, / stette, e dei dì che furono / l’assalse il sovvenir!» (vv. 73-78). Il destino dei grandi, un destino che sa di nostalgia e di malinconia, di occhi che vorrebbero infiammare l’aria, ma che si chinano alla rassegnazione. È il destino dei grandi, che hanno cavalcato la storia come se fosse stato un puledro addomesticato e obbediente e si ritrovano alla fine caduti, come se quello spirito del mondo avesse deciso di trasmigrare altrove. E così accadde a Napoleone, su un’isola lontanissima dallo strepito delle numerose battaglie. Il 5 maggio di 200 anni fa.