A 125 anni dalla «Rerum novarum»

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leonepadi Leonardo Salutati • Laisser-faire (in francese “lasciate fare”) è una frase tradizionalmente attribuita al mercante Legendre nella sua risposta a una richiesta di Jean Baptiste Colbert, su che cosa occorresse per far prosperare il commercio. Da sempre è utilizzata come espressiva della visione propria del liberalismo economico, che si affida alla mano invisibile del mercato per conseguire il miglior risultato possibile, poiché si ritiene che l’intervento pubblico può solo peggiorare i risultati, non migliorarli, in quanto lo Stato è considerato solo un ingombrante e costoso intralcio al libero dispiegarsi dell’impresa privata che, secondo il mainstream economico andrebbe avanti da sola, senza bisogno di nulla.

In realtà basterebbe riflettere sull’entità dell’intervento pubblico della Federal Reserve statunitense in soccorso delle banche private (si parla di circa 7000 miliardi di dollari), oppure su quello analogo della BCE in Europa (circa 1000 miliardi di euro), per realizzare che non è così. Chi obiettasse che, comunque, tali eventi sono eccezionali e non capaci di smentire la teoria liberista è invitato a riflettere su recenti, e purtroppo, poco conosciute ricerche in campo economico che rivelano una realtà diversa. Infatti non è questione di dibattito ideologico ma è un dato di fatto che sia lo Stato, nelle economie più avanzate, a farsi carico del rischio di investimento iniziale all’origine dell’imprenditoria più audace, dell’innovazione più prolifica e delle nuove e rivoluzionarie tecnologie, che assuma il ruolo di motore dinamico di settori come la green economy, le telecomunicazioni, le nanotecnologie, la farmaceutica. È lo Stato, attraverso fondi decentralizzati, a finanziare ampiamente lo sviluppo di nuovi prodotti fino alla commercializzazione. Da sempre, il settore pubblico è insostituibile nel promuovere l’innovazione perché si assume rischi che il settore privato farebbe fatica ad affrontare. Esso dispone infatti di “capitali pazienti”, che possono attendere la remunerazione del rischio non entro cinque anni, come i fondi di private equity e venture capital, ma anche in dieci-vent’anni.

Lo raccontano Internet, su cui ha investito l’Ente pubblico americano di difesa (Darpa); il Web o lo schermo tattile, entrambi nati nei laboratori del Cern grazie ai soldi degli Stati europei; il sistema di scorrimento multitouch frutto della ricerca nell’Università del Delaware e sostenuto dalla National Science Foundation e dalla Cia. È inoltre un fatto che i protagonisti dell’innovazione sono sovvenzionati da sistemi-Paese, anche in luoghi teoricamente dominati dal mercato e dal liberismo, a cominciare dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna. Per esempio il Governo tedesco sta attualmente investendo significativamente su nucleare, energie eoliche e solari, tecnologie “verdi”; quello statunitense sta destinando alla ricerca farmaceutica – attraverso i suoi programmi statali – collocamenti pari a 30 miliardi di dollari all’anno. Denaro che ha indotto la Pfizer (la più grande società del mondo operante nel settore della ricerca, della produzione e della commercializzazione di farmaci) a trasferire i propri quartier generali dal Kent inglese a Boston. Lo Stato si rivela non solo un grande regolatore che corregge fallimenti ed esagerazioni dei mercati, ma il maggior creatore di nuovi mercati. Potremmo dire il più grande imprenditore esistente, da sempre.

Secondo l’opinione di un importante gruppo di economisti, se non cominciamo a mettere in discussione i tanti “miti” dello sviluppo economico e non abbandoniamo le visioni convenzionali del ruolo dello Stato nello sviluppo, non potremo sperare di affrontare le sfide strutturali del 21esimo secolo e produrre quel progresso tecnico e organizzativo indispensabile per una crescita equa e sostenibile nel lungo periodo.

È quanto ha da sempre insegnato la Dottrina sociale della Chiesa a cominciare da Rerum novarum, di cui ricorrono quest’anno il 15 maggio i 125 anni dalla promulgazione, che invoca il necessario intervento dello Stato per risolvere la questione operaia dell’epoca e per indirizzare verso il bene comune tutte le forze della società (nn. 27-29). Cento anni dopo, in perfetta sintonia con l’enciclica leonina, Centesimus annus precisa ulteriormente le modalità dell’insostituibile ruolo dello Stato nella società e nell’economia: «per assecondare l’attività delle imprese, creando condizioni che assicurino occasioni di lavoro, stimolandola ove essa risulti insufficiente o sostenendola nei momenti di crisi. Lo Stato, ancora, ha il diritto di intervenire quando situazioni particolari di monopolio creino remore o ostacoli per lo sviluppo» (n. 48). Tutto questo nella consapevolezza che: «Simili interventi di supplenza, giustificati da urgenti ragioni attinenti al bene comune, devono essere, per quanto possibile, limitati nel tempo, per non sottrarre stabilmente a detti settori e sistemi di imprese le competenze che sono loro proprie e per non dilatare eccessivamente l’ambito dell’intervento statale in modo pregiudizievole per la libertà sia economica che civile (Ibidem).

Una lezione più che mai attuale.

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Leonardo Salutati

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